Il comparto dell’industria petrolifera è tradizionalmente un settore che non genera elevati livelli di occupazione ed anche in presenza di grandi investimenti questi sono concentrati principalmente in impianti, macchinari e progettazione con ricadute circoscritte per l’occupazione a regime. Le cifre che sono circolate in questi giorni rispetto all’occupazione legata alla filiera petrolifera risultano dunque spesso sovrastimate (il contratto nazionale del settore petrolifero, esclusi i lavoratori delle aziende dell’indotto, si applica, ad esempio, a poco meno di 35 mila addetti). Allo stesso modo è sovrastimata l’occupazione collegata alle attività dell’Eni in Basilicata, così come a quella associata alla Total sempre in Basilicata.

L’occupazione generata dall’attività estrattive in Val d’Agri, che sono ormai in corso da 20 anni, ovvero il funzionamento del Centro Oli di Viggiano, dove avviene una prima attività di trattamento del petrolio e del gas, e la manutenzione dei pozzi, è oggi quantificabile al massimo in 1.500 addetti, di cui circa 400 dipendenti diretti dell’Eni e il resto tra le aziende dell’indotto. Si tratta di un dato significativamente inferiore a quello l’Eni riporta ufficialmente e così il governo. Per il 2014 l’Eni dichiarava 409 dipendenti del distretto meridionale, di cui 385 impiegati a Viggiano, e 3.121 tra le aziende dell’indotto. Questo dato risentiva sia dell’avvio della costruzione della quinta linea gas del Centro (opera terminata nell’autunno scorso) e di altri lavori straordinari in questo impianto e per alcuni dei 26 pozzi in attività.

Una delle caratteristiche dell’indotto petrolifero è quella di avere molto personale impiegato con contratti a termine, a volte anche per poche settimane, e spesso non di origine locale. Ecco allora che, se si prendono le ore di lavoro dichiarate dall’Eni nel 2014 per i suoi dipendenti e per quelli dell’indotto per le sue attività in Val d’Agri (3,5 milioni) e si dividono per un orario pieno annuale di lavoro (1.790 ore),il numero effettivo di addetti scende da 3.530 a poco meno di 2.000; ma abbiamo detto per l’appunto che già nel 2014, come nel 2015, sul fabbisogno di manodopera incidevano lavori straordinari che oggi sono terminati, mentre il lavoro associato ai pozzi in manutenzione o di prossima produzione in genere ha scarse ricadute sul piano dell’occupazione, oltre ad essere molto circoscritto in termini temporali.

Sempre per restare ai dati del 2014, il 35% della forza lavoro dell’indotto aveva un contratto a termine (il 40% se si considera quella di origine locale) e più in generale la metà dei dipendenti (tra Eni e indotto) non era originario della Basilicata. Se aggiungiamo poi a questo che la maggioranza dell’occupazione locale dipende da imprese attive nei servizi a minor valor aggiunto della filiera (opere edili e servizi ambientali), il risultato sul piano occupazionale è presto dato. Ciò non vuol dire che non sia stato creato lavoro, ma siamo significatamene al di sotto dei livelli indicati e con pochi benefici per la forza lavoro locale più scolarizzata (l’Eni impiega solo 60 laureati in Basilicata, di cui 30 di fuori regione). Tra l’altro chi lavor nell’indotto lo fa spesso in condizione di incertezza occupazionale, che solo un accordo sindacale-istituzionale del 2012 ha in parte ridotto con l’introduzione della clausola sociale nei cambi d’appalto, per merito soprattutto della locale Fiom locale e della Cgil.

In questi anni le attese sul piano occupazionale sono state riportate molto sulla spesa attivata nei 35 comuni dell’area programma beneficiaria delle royalties, ma anche in questo caso i risultati, se si fa eccezione per i comuni più prossimi al Centro Oli (Marsicovetere e Viggiano) sono scarsi, come conferma la riduzione costante di popolazione in tutta l’area (-5,6% tra il 2002 e il 2014), fatta eccezione per i due comuni prima citati. La stessa Fondazione Eni Enrico Mattei ha insistito, in questi anni, sull’occupazione indiretta, ma misurare il maggior dinamismo di un comune di 5 mila abitanti (Marsicovetere) o di 3 mila (Viggiano) nei servizi ricettivi e nel commercio appare quasi scontato nei periodi in cui avvengono lavori straordinari e l’afflusso di manodopera esterna è maggiore. Così in un’area caratterizzata dalla tradizionale bassa partecipazione al mercato del lavoro si può dire che in questi anni è cresciuta contemporaneamente sia l’occupazione che la disoccupazione.

L’impianto della Total, dopo la perforazione di 6 degli 8 pozzi autorizzati, sta ad oggi impiegando (dato del febbraio 2016) meno di 2 mila unità, di cui 144 dipendenti diretti della compagnia (di cui solo 100 di origine locale) e poco più di 1.700 nelle aziende addette alla costruzione dell’impianto e delle infrastrutture di viabilità e di altra natura, di cui solo il 57% originario della Basilicata. Siamo, dunque, ben lontani dai 10 mila addetti dichiarati pochi giorni fa dal presidente del Consiglio.

Ma una volta conclusa la costruzione dell’impianto cosa rimarrà in termini occupazionali oltre ai circa 144 o poco più dipendenti diretti della Total? La stessa compagnia ha riportato nel suo Local Report del 2013 che a regime l’occupazione dell’indotto dovrebbe risultare tra i 400 e i mille addetti, mentre l’occupazione diretta non dovrebbe superare di molto quella attuale. Anche l’occupazione indotta per gli adeguamenti del porto di Taranto e nella raffineria Eni risulta piuttosto modesta. Tra l’altro sembrerebbe che neppure tutto il petrolio estratto in Val d’Agri sia lavorato nella raffineria di Taranto, un dato tanto più in linea con la progressiva riduzione delle attività di raffinazione dell’Eni sul territorio nazionale.

Come già in occasione di precedenti investimenti nel Mezzogiorno l’enfasi sulle opportunità occupazionali è servita spesso per giustificare investimenti fortemente impattanti sul piano ambientale (e sanitario). Quelli dell’Eni e della Total ne sono l’ennesima conferma: il lavoro effettivamente nuovo, ovvero creato facendo ricorso alla manodopera locale, è molto minore di quello dichiarato e del resto le tendenze demografiche della Val d’Agri come della Valle del Sauro confermano che queste opportunità sono limitate e spesso escludono proprio quanti sono in possesso di livelli di istruzione più elevati. Altro tema è l’occupazione che si sarebbe potuta generare indirettamente in Val d’Agri per effetto delle royalties e non solo. Ma su questo una responsabilità maggiore ricade sulle istituzioni locali più che sulle compagnie.

* Università di Salerno