I classici, ha scritto Calvino, sono libri che non esauriscono il loro significato anche «dove l’attualità più incompatibile fa da padrona»; sono libri che, per definizione, si rileggono perché, a ogni passaggio trasmettono un senso nuovo e ritrovano importanza. Un classico, insomma, non diventa mai un oggetto desueto. È un paradosso felice, perciò, il fatto che uno dei classici più importanti di teoria e storia comparata della letteratura pubblicati in Italia sia dedicato proprio al tema del non funzionale; mi riferisco al grande libro di Francesco Orlando (1934-2010), tra i più importanti francesisti e comparatisti italiani: Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti (Nuova edizione riveduta e ampliata a cura di Luciano Pellegini, prefazione di Piero Boitani, Einaudi «Piccola Biblioteca Ns», pp. XX – 554, euro 36,00). Uscito per la prima volta nel 1993, Gli oggetti desueti venne ampliato già l’anno dopo, con un’appendice contenente nuovi esempi; l’edizione curata ora da Pellegrini colloca quelle aggiunte nei punti previsti dall’autore, inserendo inoltre le modifiche e gli esempi ulteriori con cui Orlando aveva incrementato l’edizione americana (2006) e francese (2010, 2013).
«Un vincolo stretto – osserva il curatore – unisce il libro alla biblioteca domestica dell’autore, arricchitasi passo passo dei classici oggetto di studio durante i due decenni di concepimento». La notazione, neutra all’apparenza, è invece necessaria, evocando la leggendaria biblioteca privata di Orlando, che allievi e amici hanno ammirato nella sua dimora pisana. La cura posta nell’ordinare quei libri corrispondeva all’abito mentale di Orlando, lo stesso che ha ispirato Gli oggetti desueti: una sistematicità mai schematica, mai assoluta rispetto all’esperienza (quella personale e intellettuale dello studioso, quella storica degli autori considerati), tanto più complessa quanto più forti erano le tensioni, i contrasti interni al testo letterario, che Orlando sapeva riconoscere e illustrare. Anche per questo il libro non è un’opera, ma l’opera della vita di Orlando, quella in cui la sua cultura e il suo ethos entrano più in contatto con il sistema teorico costruito nei volumi precedenti, in particolare in Per una teoria freudiana della letteratura (1973). È lo studioso a spiegare il parallelo tra Gli oggetti desueti e la teoria del ritorno del represso messa a punto nei suoi saggi di più diretta ispirazione freudiana: «Come la letteratura accoglie un ritorno del represso da cui è contraddetta una repressione morale, e un ritorno del represso irrazionale da cui è contraddetta una repressione razionale, così supponiamo che accolga (…)(…) un ritorno del represso antifunzionale da cui è contraddetta una repressione funzionale».
Orlando seleziona i casi di represso antifunzionale in base a tre costanti: una sintattica, che coincide con la forma dell’elenco; e due tematiche, cioè la consistenza materiale degli elementi elencati (cose, oggetti, luoghi concreti, non entità astratte) e il connotato dell’inutilità, della vetustà, della desuetudine appunto. «Ne andava – attraverso le testimonianze della letteratura – del rapporto stesso degli uomini con il mondo fisico da essi assoggettato (…). E ne andava del rapporto stesso degli uomini con il tempo, che impone le sue tracce alle cose».
La selezione degli esempi, numerosissimi e prelevati sempre e solo dai capolavori delle maggiori letterature, sostiene un progetto che tutto è tranne che un regesto di curiosità, una Wunderkammer verbale. Il libro di Orlando, che insieme a La carne, la morte e il diavolo di Praz è tra i capisaldi del genere in Italia, e modello per altri importanti saggi più recenti (penso per esempio ai Feticci di Fusillo), non è infatti un’opera statica come una galleria di quadri, ma è spinta da movimenti interni. Il primo è quello della ‘trama’, che Orlando tesse narrando l’avventura storica del proprio pensiero, nelle fasi che l’hanno condotto dall’ideazione alla preparazione e alla stesura. Il suo passo è da narratore onnisciente (frequenti, non a caso, le apostrofi ai «lettori»); lo stile, sovrano e affabulante, sontuoso e al tempo stesso esatto, è il medesimo che Orlando assumeva anche durante le sue lezioni e conversazioni.
Il secondo e più importante movimento descritto negli Oggetti desueti è quello che conduce da «un puro dato di materia del contenuto» alla «serie dei testi ai quali (…)esso è comune». Tra l’astratta materia e la letteratura concreta, cioè, si distende uno spazio che il libro attraversa, riempiendolo di definizioni ottenute per opposizioni successive: dodici in tutto (dal monitorio-solenne al logoro-realistico, dal memore-affettivo al sinistro-terrifico), rappresentate nel complesso schema («un albero né genealogico né vegetale») che si dispiega al centro del capitolo IV. Come osserva Boitani nella Prefazione, chi «si accosta al libro oggi non potrà fare a meno di riconoscervi per esempio le tracce dello strutturalismo che domina, con le sue opposizioni binarie, la proposta delle dodici categorie». D’altra parte – osserva ancora Boitani – la tentazione sincronica cui indulge la geometria strutturalista è corretta da altri riferimenti (Auerbach soprattutto) e sorvegliata da Orlando stesso per mezzo di cautele e precisazioni. Nell’impiego dell’«albero» – scrive ad esempio nel capitolo V («Dodici categorie da non distinguere troppo») – il lettore va messo in guardia dal rischio «di scindere le interpretazioni da rappresentazioni corrispondenti, reificando senza cose le categorie». Il primum della classificazione è infatti la scelta delle parole giuste per definire le cose e interpretarle nel contesto dell’opera; di qui l’andamento stesso del libro, che procede per successive esemplificazioni storicamente disposte, culminanti nel capitolo VI: «Qualche romanzo del Novecento».
Se la posta in gioco degli Oggetti desueti era nientemeno che «il rapporto stesso degli uomini con il tempo», siamo quasi obbligati a chiederci quali funzioni ed effetti possa avere oggi questo classico, a vent’anni dalla sua uscita (e almeno il doppio dalla sua ideazione). Restano immutati il valore euristico e la magnanimità dell’impresa: comporre sub specie oggettuale una vera opera-mondo, come pochissimi altri libri di critica letteraria sono. Anche per questo l’effetto che provoca è quasi straniante: da un lato, il rilievo che gli oggetti hanno avuto negli studi letterari successivi – anche grazie a Orlando – fa sembrare meno originale la prospettiva; dall’altro, proprio il confronto rivela di colpo la minore consistenza o l’estemporaneità di saggi più recenti. Occorre resistere a un impulso, oggi che la teoria è passata di moda e che la stessa comparatistica, molto più aperta all’incrocio con diversi saperi e forme dell’immaginario, riconfigura bene o male su basi nuove il rapporto tra forme e temi, categorie e cose: l’impulso di idealizzare un libro di quelli che non si scrivono più, confondendolo con un’epoca, storica e personale. O di promuoverlo a simbolo assiologico, a figura di un Super Io bibliografico al cospetto del quale sentirsi inevitabilmente incompleti. «Lo strombazzare di progresso echeggia e si perde su questo lontanissimo sfondo, nel più pieno dei sensi desueto»: sforziamoci di leggere in questa frase finale degli Oggetti desueti non una dichiarazione a favore dell’inattualità, ma l’espressione di un’epoca con cui possiamo rimanere in contatto solo prendendone le distanze.