Quando nel 1952 John Steinbeck intitolò il suo secondo capolavoro East of Eden, non intendeva esaltare (come può risultare nella resa italiana: La valle dell’Eden) l’idea tradizionale della California quale nuovo paradiso in terra per l’americano che si spinse a Ovest fino all’ultima frontiera, bensì l’esatto contrario. Nel libro della Genesi la «terra a est dell’Eden» è la terra di «Nod», dove fu esiliato Caino dopo aver ucciso il fratello Abele. A metà secolo, una lettura attenta di quel titolo (in sintonia con la vicenda rappresentata) permetteva a Steinbeck di incrinare il mito della California come esso era stato creato dai primi pionieri di metà Ottocento, lì giunti, dopo il rischioso attraversamento del continente, non solo in cerca di pepite d’oro (l’Eldorado del Gold Rush) ma per impiantarvi orti, giardini e campi da lavorare. Lo stesso desiderio perseguito dai diseredati delle zone centrali degli Stati Uniti, colpiti negli anni trenta del Novecento dalle piaghe della Grande Depressione e costretti a emigrare a Ovest sull’alito della speranza. Questi ultimi – in seguito chiamati spregiativamente okies (da Oklahoma) nei ricchi ranch californiani – sono i protagonisti dell’epopea di Furore (1939), per i quali la California è terra tanto di esilio quanto di salvezza.
Steinbeck, che getta uno sguardo simpatetico anche sui peones – i nativi divenuti i paria del presente –, scrive prevalentemente della Salinas Valley degli anni trenta e quaranta, gli stessi anni rievocati – su un risvolto più aristocratico della Storia – da Joan Didion, un’altra californiana doc, in Run River (1963), il suo romanzo di esordio, che appare adesso per la prima volta in italiano (traduzione di Sarah Victoria Barberis, Il Saggiatore, pp. 325, euro 20,00), dopo i suoi celebri libri-reportage e i più recenti memoir. Scritto a New York sulla spinta della «nostalgia» per la terra sua e dei suoi avi, e diviso in tre parti – «Agosto 1959», «1938-1959», «Agosto 1959» –, Run River dialoga con presente e passato. Didion è nata nel 1934 a Sacramento, la capitale dello Stato, e ha nel sangue l’orgoglio del pionierismo dei fondatori, ovvero di quella primogenitura californiana da cui negli anni cinquanta del secolo scorso discendevano le poche famiglie ancora detentrici di una secolare appartenenza al suolo e del possesso di vasti appezzamenti di terreno nella Sacramento Valley. Ma al tempo in cui mette mano a questo romanzo, Didion sente che qualcosa nell’aura della vecchia California si è guastato. Dunque, la sua nostalgia non è di marcatura sentimentale, bensì l’istigatrice di un processo revisionista del mito (anche famigliare) e di un passato generatore di un orgoglio che d’improvviso sembra aver preso sapore di surrogato.
«Esprimi un desiderio e poi realizzalo», dice il padre, Walter Knight, a Lily, la protagonista – con Everett McClellan, l’uomo che sposerà – di Run River. È lo spirito di chi si mosse sulla «strada per l’erba più verde»; è lo stesso spirito della self-reliance: «Ti ho detto che il gioco è tuo e tu definisci le regole – continua il padre –, io dico che se un sacco di persone tanto tempo fa non avessero espresso un desiderio e non fossero partiti all’attacco, tu non saresti nata in California». Sul finire degli anni trenta l’apparentemente fragile Lily («il giglio della valle») e Everett sono gli ultimi rampolli di due antiche famiglie di Sacramento. La storia della loro unione, da entrambi desiderata anche in nome della continuazione di una classe sociale (e di proprietà terriera), sarà materia dell’ampia parte centrale del romanzo, incorniciata dal presente dei due fulminanti prologo ed epilogo che chiudono drammaticamente la saga di una famiglia e la storia di un matrimonio avariato (stigmatizzata in epigrafe da un’amara citazione tratta da Robert Lowell) nel giro temporale di meno di un’ora: dall’una meno diciassette all’una e trenta di una notte d’agosto del 1959. A scandire il tempo è la lancetta di un orologio di diamanti, pegno dell’amore di Everett per Lily, e di due spari nel buio, provenienti dal molo sul fiume che scorre lungo i confini del ranch. L’anno – 1959 – è emblematico, anche per la nazione. Si chiude un’era.
Con il suicidio di Everett, l’indomito coltivatore di luppolo, quarantacinque minuti dopo il suo assassinio di Ryder Channing, un parvenu nella Valle, un poco di buono, indebitato e imbroglione, il serpente seduttore di sua moglie e dell’amata sorella Martha, annegata nel fiume come un’Ofelia ripudiata, la vicenda si chiude. E con essa si chiude la storia della vecchia California che cede gli argini dei suoi fiumi irruenti, delle valli punteggiate di bestiame, frutteti, vigneti, spighe di luppolo (in crisi con l’invasione di bourbon e brandy: Everett non se ne rende conto), all’avventura di immobiliaristi senza scrupoli e senza fantasia, pronti a standardizzare: «Anche se Lily ed Everett affermavano di non vedere alcuna differenza nei chilometri degli edifici stuccati con colori pastello, Martha ne sapeva di più. Era, spiegò, una questione di dettagli. Alcuni costruttori usavano pannelli di sequoia per il rivestimento laterale; altri, un’imitazione di pietra grezza intorno a ogni porta. In un’area ogni cortile prevedeva una piccola piscina a forma di rene, una cabina, e un cartello ben incorniciato che indicava le ‘Regole della piscina’». È l’immagine stucchevole di quello che, di lì a poco, la California sarebbe diventata, mentre avanzano il mito di Hollywood e di Disneyland, costruita su un terreno dove prima crescevano aranceti. Il malaise è già avvertibile a San Francisco, dove Kerouac e Ginsberg fondavano la controcultura.
Nella veglia auto-coscienziale in quegli ultimi istanti che precedono il secondo colpo di pistola, Lily Knight si chiede come fosse stato possibile arrivare fino a quel tragico fallimento, e mette in crisi tutto il Sogno americano quando si fa trascorrere davanti una galleria di antenati lunga dodici generazioni: predicatori itineranti, sceriffi, cacciatori di indiani, avvocati, studiosi della Bibbia, senatori. Duecento anni di disboscamenti, e i Knight (cognome da Tavola Rotonda) sempre in avanti, dalla Virginia, al Kentucky, al Tennessee e infine la California: «il taglio netto che li avrebbe riscattati tutti. Erano state persone particolari, con virtù particolari richiamate in circostanze particolari, mentre i particolari difetti avevano atteso tutti quegli anni, inavvertiti, insospettati, appena accennati da uno o due membri di ciascuna generazione, da una moglie il cui sguardo puntava non all’Eldorado ma alla siepe di sanguinella della madre, da un ragazzino sedicenne che era il più bravo a sparare nella contea, tanto che quando non ebbe nulla contro cui sparare uscì per una spedizione militare e sparò al fratello, un incidente. Era stata soprattutto una storia di incidenti. Che cosa vuoi? aveva chiesto a Everett quella sera. Avrebbe potuto rivolgere la stessa domanda a ognuno di loro». Incidenti, difetti insospettati, o trasgressioni al patto sociale, sedimentatisi generazione su generazione nel sangue dell’America, incidenti piuttosto che segnali di un destino (manifesto).
Esprimi un desiderio e realizzalo, le aveva detto il padre, passa all’attacco. Troppo facile, troppo menzognero, ingannevole. Lily lo capisce alla fine della sua veloce ricostruzione critica di una falsa epopea, ed è in questo momento, prima di udire il secondo sparo, che la sua «fragilità» diventa forza redentiva. Lily congeda il mito e entra nella Storia, a est dell’Eden.