Pochi sanno cosa si giocavano, quali i valori tecnici in campo e soprattutto com’è andata a finire la loro partita, ma tutti abbiamo visto nella fotogallery di Rio 2016 le atlete egiziane e quelle tedesche del beach volley fronteggiarsi nelle rispettive, antitetiche tenute. Se ne è parlato molto, senza chiarire però se sia più funzionale la classica tenuta in bikini delle tedesche o la tuta integrale con hijab delle egiziane, che qualcuno con deprecabile approssimazione ha ribattezzato «burkini». Il match, finito 2 set a 0 per la Germania, resta come fotogenica rappresentazione di un sano relativismo olimpico.

Eleganti e potenti, forti, riscattanti, sfrontate o composte, ma sempre reali. Vada come vada, Rio 2016 verrà forse ricordata come un’edizione delle Olimpiadi in cui qualche ulteriore velo d’ipocrisia è venuto giù. Sono ancora tante le discriminazioni da demolire, ma va affermandosi un’idea finalmente plurale dello sport femminile. Che comprende proposte di matrimonio lesbico in mondovisione come quella, andata a buon fine, rivolta sul campo dalla responsabile dei volontari alla “metawoman” della seleçao feminina di rugby a 7. Tanto quanto il coraggio, la determinazione di Marieke Veervoort, 37 anni, nazionale paralimpica belga di atletica, che una malattia degenerativa progressiva costringe in carrozzina dal 2000. Dopo un oro e un argento a Londra nei 100 e 200 metri, un’ultima Olimpiade con cui misurarsi.

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Marieka Vervoort

 

Prima che qualche giornalista ispirato le chiedesse dei suoi progetti per il futuro, ha dichiarato che intende tra l’altro «pensare all’eutanasia…». Lo ha detto senza enfasi, con la serena consapevolezza di una cittadina a cui la legge del suo Paese consente una simile scelta. La vita con lei non è stata tenera, ma da questo punto di vista le ha almeno risparmiato il limite di essere nata in Italia.