«A Cuba non stiamo tornando al capitalismo, ma i tempi sono cambiati e il socialismo dev’essere creativo per affrontare nuove sfide», dice al manifesto Oliver Zamora Oria. Analista politico e scrittore, volto noto della Tv cubana, segue in particolare le relazioni tra Stati uniti e Cuba. Zamora è in Italia su invito dell’Associazione di amicizia Italia-Cuba. Lo abbiamo incontrato alla Sapienza, durante un dibattito organizzato dalla rete di solidarietà Caracas Chiama nell’aula occupata “Tre Serrande”. Attorniato dagli studenti, Zamora risponde alle domande senza ritrosie. Parla del ruolo dei giovani, della democrazia e delle istituzioni cubane. «A Cuba e nel resto dell’America latina – dice – gli studenti sono il motore del cambiamento: in Cile, le loro manifestazioni hanno innescato un grande movimento, costruito alleanze con i minatori e con altri settori colpiti dal neoliberismo, che ha avuto in Cile il suo laboratorio più feroce durante e dopo la dittatura di Pinochet. E ora stanno mobilitando il Messico, dove la scomparsa dei 43 normalistas ha fatto emergere la domanda di un cambiamento profondo. Il loro punto di forza – afferma – è il rapporto con la grande storia del movimento operaio, che invece si è spezzato dalle vostre parti. A Cuba e ora in Venezuela, i giovani hanno dato una lezione al mondo: prima dimostrando che l’ordine delle cose si può cambiare, poi facendo vedere come si può sviluppare un progetto di paese nonostante le difficoltà. Da noi, nonostante il feroce blocco economico imposto dagli Usa, malgrado la caduta del campo socialista che sosteneva la nostra economia, non abbiamo chiuso un solo liceo, né privatizzato i servizi pubblici o sfruttato i migranti. E non abbiamo paura di affrontare il cambio generazionale dei nostri dirigenti».

Con il manifesto, Zamora parla dei segnali di disgelo che arrivano dagli Stati uniti e del sul nuovo slancio di Cuba: che per il 2015 prevede un incremento del Pil superiore al 4%, già registrato nel corso di quest’anno a seguito delle riforme economiche messe in atto nel settore manifatturiero, della costruzione, del commercio e dell’agricoltura.

Il New York Times ha pubblicato ben sei editoriali per chiedere la fine del blocco economico contro il suo paese imposto dagli Stati uniti e rinnovato anche quest’anno. Alcuni deputati Usa si sono recati a Cuba. Che cosa significa?
Il Nyt rappresenta settori influenti dell’élite nordamericana, se interviene così è per preparare il terreno al presidente affinché avvii un processo di normalizzazione. Il libro di Hillary Clinton, praticamente un manifesto elettorale per la sua prossima candidatura, ha detto chiaramente che il bloqueo contro Cuba è fallito. L’orientamento del potente settore cubano di Miami su questo tema è cambiato, chi aspira alla prossima presidenza degli Stati uniti (e noi speriamo che sia ancora Obama), lo sa. Faccio un esempio. Alle elezioni di medio termine, Charlie Crist è stato candidato in Florida per il Partito democratico, dopo aver cambiato casacca (prima era repubblicano). In Florida vive il 70% della comunità cubana degli Usa. Crist ha perso contro il suo avversario repubblicano, ma nel distretto di Miami Dade ha ottenuto oltre 100.000 preferenze in più di lui. E aveva impostato la campagna spiegando quanto può essere positivo per la Florida – uno stato in crisi – un cambio di indirizzo con Cuba: produrrebbe – ha detto – 40.000 nuovi posti di lavoro e un ricavo di oltre 3.600 milioni di dollari. Togliere il bloqueo sarà un processo lungo e complicato, ma pensiamo che le condizioni ci siano. E’ un tema che trova consensi sia tra i democratici che tra i repubblicani. La rivoluzione cubana ha sempre guardato con attenzione alla relazione con chi è andato via. Abbiamo lavorato sui tempi lunghi, fidando anche sul cambiamento generazionale e sul diverso contesto. Cuba, certo rappresenta un “cattivo” esempio per gli Stati uniti. E per questo continua a essere inserita in tutte le possibili liste nere. Ma chi può ragionevolmente pensare oggi che rappresenti un pericolo vero per gli Usa? La prima ondata di chi ha lasciato l’isola era composta soprattutto dai sostenitori del dittatore Batista, dalla grande borghesia e dai latifondisti espropriati. Nell’allora contesto della Guerra fredda, gli Stati uniti li hanno accolti e foraggiati. La Cia ha venduto loro oltre 300 imprese perché potessero riprodursi e continuare a finanziare attentati contro di noi. Ma ora quelle persone, che si erano appropriate del tema Cuba nella politica statunitense, sono quasi tutte morte o molto anziane. I loro figli e nipoti hanno una relazione lontana e diversa con Cuba, sono più interessati ai propri interessi negli Usa. In mezzo, a fine anni ’80, c’è stata una generazione di rifugiati economici: che sono stati praticamente obbligati a parlare male di Cuba, ma ora chiedono di normalizzare la situazione con il loro paese d’origine. Oltre il 60% dei cubani residenti negli Usa chiede un cambiamento politico. E questo può essere positivo per Obama, soprattutto ora che ha una situazione di minoranza parlamentare ma un buon consenso su questo tema.

Il contractor statunitense Alan Gross è da 5 anni in carcere a Cuba. Washington ha ribadito che la sua liberazione «resta una priorità». Il Nyt ha criticato il pressapochismo della Cia che invia allo sbaraglio persone poco preparate per compiere azioni sovversive. A che punto stanno le cose?
Ora negli Usa c’è un movimento per liberare Gross, e che risponde agli interessi dei potenti gruppi economici di origine ebraica, di grande influenza sulla politica nordamericana. Ma nelle carceri Usa restano tre nostri compatrioti che stavano lottando contro il terrorismo, invece sono stati condannati all’ergastolo. Prima erano cinque, ma due hanno scontato la pena e sono tornati a casa. La loro liberazione peserà per noi prima di qualunque altro accordo con gli Stati uniti. Per la liberazione di Gross, chiediamo il rientro dei nostri tre compagni. Ora Obama ha la facoltà e anche la situazione politica che gli consente di farlo.

Che cosa cambierebbe se le relazioni con gli Usa venissero normalizzate?
So che molti amici di Cuba temono un ritorno indietro. Sappiano che siamo preparati. Nelle cooperative che oggi lavorano per conto proprio, gli operai eleggono il proprio capo e si sono già sindacalizzati. Nelle grandi manifestazioni del Primo maggio, vi sono striscioni che dicono «Noi siamo i cuentapropistas» a sostegno del socialismo. Abbiamo imparato dalle esperienze negative del continente e anche dalla caduta del blocco socialista. Lì hanno subito l’impatto dell’industria culturale nordamericana, di cui non conoscevano niente. Da noi, i giovani conoscono la musica, i film, le serie tv nordamericane. A differenza dei paesi socialisti di allora, i nostri ragazzi non si sono allontanati dalla politica, conoscono la storia, il marxismo e le cause della crisi capitalistica nei vostri paesi. Con il settore turistico, abbiamo anche già sperimentato i problemi che comportano gli investimenti esteri: una parola che è quasi una bestemmia in America latina, per via dei disastri compiuti dalle multinazionali e la subalternità politica. Ma questo è successo con i governi di destra. A Cuba è però stata varata una legge precisa per chi viene a investire, che presenta vincoli precisi: chi non è d’accordo, non può venire. Però i tempi sono cambiati, dobbiamo modernizzarci e non abbiamo i capitali per farlo, anche perché è difficile e costoso per noi ottenere crediti internazionali a causa del bloqueo. Ci servono infrastrutture e nuove tecnologie che non possiamo procurarci attraverso gli scambi solidali che abbiamo messo in campo nel continente. Se per oltre cinquant’anni gli Usa non sono riusciti a farla finita con la rivoluzione è perché è sostenuta dal popolo. Quest’anno, sono trascorsi vent’anni dal varo dell’accordo neoliberista Nafta in Messico. E dieci dalla formazione dell’Alba, l’Alleanza boliviariana per i popoli della nostra America ideata da Cuba e Venezuela per l’interscambio solidale. I disastri dell’uno e i benefici dell’altra sono sotto gli occhi di tutti.