Italia, 1969-1972: di armi ne parlano in molti. Minoranze, certo, ma significative e per nulla esigue. La questione tiene banco nel vasto movimento rivoluzionario che, nato nelle università del 1968, si è a sorpresa esteso l’anno successivo nelle fabbriche. È argomento centrale nella discussione e nella elaborazione dei principali gruppi della sinistra extraparlamentare.
Non si tratta di un generico dibattito sulla legittimità o meno dell’uso della violenza. Quella, almeno sulla carta, è riconosciuta da tutti: costituisce il vero e principale discrimine con la sinistra istituzionale. Si tratta invece di un ben più concreto questionare sulla necessità di un immediato ricorso alle armi. Subito, non in un indistinto futuro rivoluzionario.

Italia, 1980-1987: quelle armi, a partire dai primi ’70, qualcuno le ha impugnate davvero. Una minoranza anche questa, ancor più che nel decennio precedente, ma non trascurabile. Neppure in termini numerici: una decina di migliaia di persone armate o fiancheggianti, un’area contigua doppia o tripla, un bacino di simpatizzanti che Sabino Acquaviva stimava sulle 300mila persone. Se il movimento rivoluzionario dei primi ’70 aveva dato vita al conflitto sociale più aspro e prolungato in un paese avanzato nel dopoguerra, quello armato (che ne costituisce la coda) ha segnato nella stessa area la principale esperienza di lotta armata dopo l’Irlanda del nord, caso molto specifico e non comparabile.

I conti con una generazione

Alla fine del 1980 e poi per tutto l’anno successivo i ferimenti, le uccisioni si ripetono ancora a scadenza quotidiana, ma è già chiaro che si tratta di una fase terminale. La partita è chiusa. Si affaccia così, pur in mesi traversati da violenze d’ogni sorta da parte sia delle organizzazioni armate che dello Stato, un quesito fino a pochi mesi prima inimmaginabile: come uscire dall’emergenza. Come chiudere il conto con una intera generazione politica e con un ciclo che ha visto violare su tutti i fronti le regole fondanti dello Stato democratico. Il tema si impone sempre più via via che la sconfitta dei gruppi armati si profila come totale e irreversibile. La discussione, sentita da tutti come drammatica e determinante, segnerà l’intero decennio ’80.

All’inizio e alla fine di quella storia, oggetto ormai di una bibliografia mastodontica, sono dedicati due libri arrivati insieme nelle librerie. La lotta è armata. Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972), di Gabriele Donato (DeriveApprodi, pp. 380, euro 23) e La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987, di Monica Galfré (Laterza, pp. 252, euro 22). Entrambi ottimi. entrambi utili non solo per comprendere la genesi e l’epilogo del fenomeno armato ma anche, forse soprattutto, per il quadro della storia italiana recente che restituiscono.
Donato riporta e analizza il dibattito di allora sull’uso immediato della armi lavorando sui documenti e sui testi invece che su una memorialistica giocoforza infedele. Dimostra così, tra l’altro, l’inconsistenza della tesi, spesso elaborata a posteriori, secondo cui la scelta armata sarebbe dipesa dalla strage di piazza Fontana, con annessa «fine dell’innocenza». Il lavoro di Donato dimostra invece che quella possibilità inizia, sì, a essere considerata realisticamente alla fine dell’autunno del ’69, ma molto più in conseguenza dell’esito dell’autunno caldo che non della strage del 12 dicembre.
Nella primavera di quello stesso anno, nelle grandi fabbriche e soprattutto alla Fiat, le lotte operaie autonome avevano messo fuori gioco i sindacati, tagliati fuori da un ciclo conflittuale che non avevano previsto, voluto e tanto meno gestito. Nel corso dell’autunno, contrariamente alle attese della sinistra rivoluzionaria, i sindacati avevano saputo rinnovarsi profondamente sino a recuperare e anzi aumentare il controllo sulla mobilitazione operaia. E’ questo recupero da parte del sindacato, a fronte di un livello altissimo di forza operaia nelle fabbriche, che convince i gruppi più radicali (il Collettivo politico metropolitano di Milano da cui nasceranno le Br, Potere operaio, il Gap di Feltrinelli e Lotta continua) della necessità di spostare lo scontro sul piano politico, quello della guerra contro lo Stato, grazie all’azione fortemente soggettiva dell’avanguardia armata. e dunque affidandosi alle armi, pena una sconfitta operaia di portata storica. Le bombe del 12 dicembre completano l’opera, convincendo molti, nella sinistra rivoluzionaria ma anche in quella istituzionale, della possibilità imminente di una drastica svolta autoritaria.
Secondo alcuni, come Gap e Cpm, la controffensiva si svilupperà col golpe, secondo Po, invece, imboccherà una via opposta, inglobando «i riformisti» nelle maggioranze di governo. Ma il punto di partenza, l’obbligo di portare il conflitto armato fuori dalle fabbriche è comune. Le ipotesi strategiche che si sviluppano di qui sono diverse, spesso opposte. Vanno dal partito clandestino e del tutto svincolato dalle lotte di massa delle Br a una sorta di doppio livello teorizzata da Po fino a una sorta di «internità armata» ai conflitto sociali su cui punta in alcune fasi Lc.

Fuori dall’emergenza
Donato non fa sconti ai teorizzatori del conflitto armato. Ne evidenzia i limiti, i madornali errori, le presunzioni, a volte i vaneggiamenti. Però non riduce mai quel dibattito all’immagine caricaturale e demente che viene da decenni dipinta. Quei temi erano del tutto interni alla logica del movimento comunista del secolo e si misuravano, senza riuscire a risolverlo, con un dilemma reale. La temuta sconfitta operaia, in effetti, si è poi puntualmente verificata. In forme più schiaccianti di quanto nessuno potesse allora prevedere.
Il libro di Monica Galfré, altrettanto denso anche se necessariamente meno specifico, tira invece le somme di una fase di grandissime speranze e potenzialità. Parte dalla singolarità di una situazione nella quale, all’inizio degli ’80, il massimo di repressione (con tanto di torture e violazioni gravi dei diritti costituzionali) si accompagna ai primi sprazzi di «desistenza», alla presa di coscienza di dover presto uscire dall’emergenza.

Prosegue dettagliando una discussione a tutto campo quale oggi sarebbe letteralmente inimmaginabile sulla funzione della pena, la riforma carceraria, la necessità di coniugare le necessità della sicurezza con quelle dell’umanità, l’urgenza di riportare la magistratura nei confini del proprio ruolo, ampiamente varcati nel corso dell’emergenza.

È un dibattito a cui partecipano tutti, partiti, giornali, Chiesa, magistratura, e in cui le posizioni mutano nel tempo, come nel caso del Pci, inizialmente contrario poi favorevole alla legge sulla dissociazione. Il percorso della legge in questione sino alla sofferta approvazione (in versione però molto diversa da quella originale) e in generale il percorso delle aree omogenee sono la colonna vertebrale della narrazione, ma non la esauriscono affatto. Intorno a quella legge si articolava una quantità di temi molto più ampi generali e profondi.

Non è vero che quella stagione è passata senza lasciare traccia: il rapporto con la pena detentiva è cambiato allora, la parola «risocializzazione» ha smesso di essere un balbettìo privo di senso e, sia pur per vie traverse e ipocrite. lo Stato ha cercato nel decennio seguente una via per chiudere l’emergenza ma senza doverla rinnegare o anche solo ripensare.

Ripercorrendo oggi quelle discussioni è difficile evitare un paragone sconfortante con la miseria delle riflessioni del presente. Ma forse proprio quel dibattito, se ci fosse stato il coraggio di portarlo fino sino in fondo invece di affidarsi all’eterna ipocrisia del potere italiano, rappresentò l’ultima occasione per evitare la degenerazione in cui, subito dopo, l’Italia post-emergenziale è precipitata.