No, Scout non è tornata. Se i lettori l’avessero conosciuta solo grazie a Va’, metti una sentinella (traduzione di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli, pp. 272, euro 18.00), il secondo romanzo di Harper Lee arrivato nelle librerie cinquantacinque anni dopo il primo, Jean Louise Finch, dalla bimba «Scout» che era, non sarebbe mai diventata uno dei personaggi più celebri e amati della letteratura americana. E suo padre, Atticus Finch, non sarebbe mai stato quel simbolo della lotta per l’integrazione razziale nel Sud degli Stati Uniti che è da decenni, il personaggio letterario al quale si deve, grazie a To Kill a Mockingbird, in Italia Il buio oltre la siepe, il fatto di avere avviato moltissimi giovani idealisti verso la professione d’avvocato.

Abbiamo ora il dubbio piacere di scoprire che Atticus è, in realtà, un segregazionista, e se nell’Alabama del 1935 aveva osato l’inosabile, difendere un nero accusato di aver stuprato una bianca, lo aveva fatto per amore del codice, non dei diritti. L’uscita a sorpresa di un nuovo romanzo della oggi quasi novantenne Harper Lee si è configurata, sin dall’inizio, come una delle operazioni editoriali più spregiudicate e discutibili. Spacciato come «il seguito» del capolavoro precedente, il nuovo romanzo ne è in realtà la prima e pochissimo riuscita versione: un abbozzo informe destinato a trasformarsi, dopo due anni di lavoro intenso, in qualcosa di completamente irriconoscibile, sia nello stile che nella trama.

Harper Lee, che aveva tenuto nascosto il manoscritto per oltre mezzo secolo, ha dato il suo benestare alla lucrosa pubblicazione. Ma è lecito sospettare che la sua decisione sia stata a dir poco intensivamente influenzata dai congiunti, né depone favorevolmente il fatto che il via libera sia arrivato immediatamente dopo la morte della sorella, che la accudiva e ne curava gli interessi. Questa prima versione del romanzo è ambientata nel 1955, vent’anni dopo le vicende narrate in To Kill a Mockingbird. Racconta il ritorno di Scout, nel frattempo trasferitasi a New York dalla cittadina natale di Maycomb, dove la situazione è ben diversa da quella di vent’anni prima. I neri hanno cominciato ad alzare la testa, reclamano diritti e la Corte costituzionale dà loro ragione. I bravi cittadini del Sud si organizzano per resistere a quella che vivono come una inammissibile lesione dei loro diritti. Per Scout, scoprire che l’idolatrato padre e il quasi-fidanzato sono impelagati fino al collo nella resistenza segregazionista è un trauma profondo, che mina il suo intero mondo interiore e si abbatte sugli stessi ricordi dell’infanzia.
Il fratello della narratrice, Jem, coprotagonista di To Kill a Mockingbird, è nel frattempo morto. Il compagno di giochi Dill, personaggio dietro il quale si celava Truman Capote, amico fraterno della scrittrice sin dall’infanzia e per tutta la vita, è citato solo di sfuggita. La storia si snoda su piani diacronici: i ricordi e i flashback di questa versione diventeranno il materiale con cui edificare il capolavoro successivo. Particolare significativo: il processo contro il nero accusato di stupro è in questa stesura iniziale un episodio appena accennato, pur se importante, e si conclude, al contrario che nel romanzo maggiore, con l’assoluzione dell’imputato.

Questo «secondo libro» di Harper Lee è in realtà un romanzo acerbo, che giustamente gli editori rifiutarono a suo tempo di pubblicare e che, dal punto di vista della qualità, sarebbe stato molto meglio lasciare nel cassetto. Ma ne resta vivo l’interesse, a patto di considerarlo non per il suo valore in sé, ma come materiale prezioso per mettere meglio a fuoco quello che resterà il solo romanzo firmato da Harper Lee. Leggerlo, purché se ne abbia ben presente la successiva evoluzione, significa assistere alla misteriosa genesi di un capolavoro. Gli aneddoti e gli ambienti che renderanno indimenticabile Il buio oltre la siepe ci sono già tutti, a volte descritti con le medesime parole che torneranno nella versione definitiva, ma squadernati come una serie sconclusionata di ricordi privati, tanto coinvolgente quanto l’album di foto di famiglia mostrate e quasi imposte da un petulante ospite . Eppure, quegli stessi episodi, quelle stesse strade e case, diventeranno, dopo un processo di maturazione tanto rapido quanto radicale, un’atmosfera magica, un mondo nel quale si specchia lo stesso Sud sconfitto di Faulkner, ma osservato con lo sguardo mai infantile di tre bambini.

Con tutta la loro a volte insopportabile prolissità, i lunghissimi dialoghi farciti di citazioni incongrue di questo libro aiutano a svelare il miracoloso equilibrio di To Kill a Mockingbird, quella violenta requisitoria contro la segregazione che risparmiava i segregazionisti e ne evidenziava i lati più umanamente apprezzabili.
Nata e cresciuta in un’Alabama che conservava ancora fresco il ricordo della più feroce e sanguinosa guerra civile della storia, la scrittrice sapeva bene che il segregazionismo del Sud era dovuto, più che al razzismo, al rifiuto di accettare la cultura colonizzatrice dei vincitori. Era la difesa estrema, e da Harper Lee pienamente condivisa, dell’identità di Dixie, nazione sconfitta e scomparsa ma non vinta.

Quando le argomentazioni, che in questa prima stesura una maldestra apprendista spiattellava mettendole in bocca a personaggi senza spessore, diventeranno l’anima e il sangue di figure reali e vive, dunque senza più bisogno di essere esplicitate, nascerà un grande romanzo. Probabilmente, se avesse deciso di scrivere ancora, Harper Lee avrebbe davvero scelto come tema il ritorno a Maycomb di Scout. Avrebbe preso la metà ambientata negli anni ’50 del primo manoscritto per rielaborarla come aveva nel frattempo imparato a fare. Persino la materia informe presentata grazie a questa cinica operazione editoriale basta a indicare che ne sarebbe potuto venir fuori un grande libro sulla delusione, la necessità di fronteggiarla e superarla, la possibilità di trasformarla in occasione di maturazione e allargamento della comprensione. Purtroppo Nelle Lee, in arte Harper, ha scelto di non farlo.