Cinquantenne, irlandese di nascita ma di madre turca; cresciuto tra il Mozambico e l’Iran, la Turchia e l’Olanda; stabilitosi prima a Londra, poi a New York, dove vive, Joseph O’Neill ha raggiunto fama e successo con il suo terzo romanzo, Netherland, pubblicato nel 2008, premiato con il Pen-Faulkner Award e salutato dal severissimo James Wood come «uno dei libri post-coloniali più notevoli che io abbia mai letto».

Ambientato a New York all’indomani dell’11 settembre, Netherland (pubblicato in Italia da Rizzoli, con il titolo La città invincibile, ma sostanzialmente ignorato da critica e lettori) è forse il più bel romanzo sulle ferite lasciate dall’attentato alle Torri Gemelle: il ritratto toccante di una città che cerca di tener fede al proprio sogno, continua ad attrarre nuovi migranti e però si disfa proprio agli occhi di chi ne ha vissuto l’ascesa sfrenata: fra questi, il protagonista, un agente di borsa che, insieme al luogo fisico del proprio lavoro, perde l’affetto e la vicinanza di moglie e figlio, insieme alla speranza di poter costruire, con loro, un futuro.
Inevitabile che, dopo un libro così toccante e profondo, sorretto da un lingua di scintillante inventiva, la critica e i lettori attendessero O’Neill al varco, pronti a cogliere qualunque traccia di ripetizione o di ripiegamento. Non c’è dunque da stupirsi che il successore di Netherland, The Dog, pubblicato negli Stati Uniti lo scorso anno, sia stato accolto in modo diseguale, dividendo i recensori tra chi lo ritiene degno in tutto e per tutto dell’opera precedente e chi lo considera un passo falso o, tutt’al più, la conferma in tono minore di un grande talento. Ora, The Dog arriva anche in Italia, ospitato nella bellissima collana di narrativa di Codice, con il titolo infedele L’uomo di Dubai (traduzione di Tommaso Pincio, pp. 288, euro 18,90), e merita una lettura attenta, sia da parte di chi ha intercettato La città invincibile prima che finisse desolatamente fuori stampa, sia di chi invece si avvicini per la prima volta alla scrittura di O’Neill.
Come è stato notato in quasi tutti gli articoli che la stampa americana ha dedicato al libro, L’uomo di Dubai riproduce molte delle situazioni e dei temi che avevano innervato La città invincibile, riprendendone anche la struttura – narrazione rigorosamente in prima persona, tono meditativo, predilezione per le pause digressive – e l’eleganza della lingua. Proprio come Hans van den Broek, il protagonista di Netherland, anche l’avvocato senza nome al centro dell’Uomo di Dubai ha appena affrontato una dolorosa separazione dalla donna, Jenn, con cui ha diviso nove anni della sua vita, e tenta faticosamente di riemergere da una lunga deriva dell’anima. Come in Netherland New York occupava il centro della scena elevandosi a vero e proprio personaggio, così, in The Dog, Dubai viene evocata nel suo furibondo e insensato dinamismo, che ne fa la proiezione e lo specchio dei sogni e delle aspirazioni di un occidente stanco e sazio di sé ma ancora disperatamente bulimico.

La trama del libro è relativamente semplice: l’innominato protagonista, proprio per sfuggire alle conseguenze di un fallimento sentimentale e umano, accetta un impiego come esecutore fiduciario e factotum dei Batros, una ricchissima famiglia libanese che ha creato un autentico impero e che da Dubai e dintorni amministra buona parte dei propri beni e asset. Trasferitosi da New York negli Emirati, in un lussuoso grattacielo residenziale nel quale gli appartamenti hanno tutti lo stesso mobilio e addirittura gli stessi libri alle pareti, il narratore trascorre il suo tempo in una condizione di ben retribuita servitù: privo di qualunque potere decisionale ma costretto a firmare e avallare decine di operazioni, non sempre comprensibili e a volte di dubbia liceità; o ancora oggetto di richieste improbabili, come ingaggiare cantanti pop e rock perché si esibiscano al compleanno o anniversario di matrimonio di Sandro, uno dei fratelli Batros, o tenerne a bada il figlio minore, un ragazzino viziato e affetto da devastante obesità.

La servitù del protagonista sembra trovare il proprio correlativo nel fatto stesso che, ai nostri occhi di lettori, egli rimane costantemente senza nome: di lui ci è possibile conoscere solo lo pseudonimo dietro il quale si nasconde quando, attingendo al proprio invidiabile stipendio, si reca a cadenze regolari in un albergo di lusso per usufruire dei servigi di prostitute, tutte e rigorosamente provenienti dall’ex Unione Sovietica. Questa assenza di identità e questa dispersione del sé e delle radici, più che ai Batros o agli esponenti più ricchi e altezzosi della comunità di espatriati che popolano grattacieli, alberghi e resort di Dubai, avvicina il protagonista ad Alì, l’immigrato senza permesso di soggiorno della cui collaborazione usufruisce a piene mani senza poterla mai regolarizzare in un contratto, e che ogni sera svanisce dalle luci della ribalta ritraendosi nel mondo degli invisibili e degli schiavi. E, al tempo stesso, lo avvicina a Ted Wilson, il misterioso americano che, da oscuro professore universitario di storia tedesca, si è trasformato in brand-setter per una grande società di Dubai, coltivando al contempo una vera e propria passione per le immersioni subacquee; ma poi è sparito nel nulla, come capita ai tanti che, vivendo al di sopra dei propri mezzi, finiscono per contrarre debiti, rischiando, in base alla legge degli Emirati, un lungo periodo di galera.

Come si comprenderà da questa sinossi incompleta, la forza del romanzo non sta nella trama. Se in La città invincibile non mancavano scene e passaggi memorabili, L’uomo di Dubai punta tutto sulla dispersione, sulle lunghe digressioni meditative, sulle tante riflessioni filosofiche affidate alla inarrestabile logorrea del protagonista. La scelta è, tuttavia, del tutto consapevole: lo stesso O’Neill, in una bella e lunga intervista pubblicata sulla Paris Review, ha dichiarato che, nella sua scrittura, «l’intreccio si manifesta al livello della frase», e che ogni paragrafo deve avere la capacità di prendere direzioni imprevedibili, spiazzando ogni volta il lettore. Come già nella Città invincibile, ma con una radicalità se possibile ancora maggiore, la scrittura sembra assumere su di sé lo spaesamento dell’Io che la produce, rifiutando la facile soluzione della narratività pura o del coup de théâtre e optando per un moto irregolare, divagante, giocato tutto tra memoria, descrizione, meditazione.

Sostenere che L’uomo di Dubai sia una sorta di variazione in tono minore della Città invincibile sarebbe fare un torto a O’Neill, al suo coraggio, alla consequenzialità delle sue scelte e del suo percorso di narratore. È più giusto e corretto, invece, affermare che il nuovo romanzo comincia esattamente dove finiva il suo magnifico predecessore, e che le analogie tra i rispettivi protagonisti servono a mantenere vivo e continuo il filo di una riflessione acuta quanto malinconica sull’agonia dell’Occidente, della quale l’11 settembre è stato forse solo un epifenomeno.
Tra digressioni, passaggi di svagata comicità o esilarante pedanteria – si pensi solo alle mail che il protagonista sogna di scrivere ai suoi esasperanti datori di lavoro, ma che non saranno mai spedite –, riflessioni illuminanti sulle servitù del nuovo capitalismo, L’uomo di Dubai non corre mai il rischio di cadere nella facile satira o nel mero reportage giornalistico, grazie a una scrittura di inesauribile inventiva esaltata dalla traduzione, di Tommaso Pincio, davvero ammirevole.