Ci sono accadimenti di natura simbolica che hanno effetti sulla realtà, come l’impiccagione di un fantoccio davanti ai cancelli della Fiat. Varchi di significato che spezzano la condanna all’invisibilità, capaci di mettere in discussione il potere con le sole armi dell’ironia. Accadimenti non violenti, anche se scabri.

Nel maggio 2014, dopo aver seppellito la compagna di reparto Maria Baratto che si era suicidata squarciandosi il ventre, cinque operai cassintegrati decidono di sdraiarsi a terra davanti al reparto logistico nel quale da anni sono ridotti all’inesistenza sociale e lavorativa, le maglie chiazzate di vernice rossa sul ventre, a mettere in scena il suicidio di Maria e mostrare l’eventualità del proprio. Nessuno li ascolta. Pochi giorni dopo portano davanti agli stessi cancelli un pupazzo di stracci legato a un cappio, a inscenare il suicidio dell’amministratore delegato della Fiat, l’animo spezzato dal rimorso. L’intento è poco interpretabile: chiamare l’azienda a rispondere delle proprie politiche, ad assumersene la responsabilità, secondo quello spondeo che i latini mettevano a base del diritto. Ma l’azienda, e il giudice del lavoro chiamato a esprimersi nella prima sentenza, agiscono un rovesciamento e definiscono quel disperato tentativo di parola «un intollerabile incitamento alla violenza», tale da motivare il licenziamento.

Uno di loro finisce col dormire in macchina, mentre il lavoro della giustizia procede e la sentenza viene confermata dal Tribunale di Nola. Il sindacato li ignora e non diversamente fa quasi tutta la stampa. «Sono stati scaricati da molti», ha detto senza mezze parole il sindaco Luigi De Magistris, «eppure si tratta di cinque lavoratori che, subendo una serie di ingiustizie sulla propria pelle, anziché starsene con la testa piegata, o scatenare la rabbia all’interno delle mura domestiche, hanno trasformato la rabbia in indignazione sociale. E per questo, credo, la collettività li dovrebbe ringraziare».

La collettività non li ha ringraziati. E nemmeno l’esanime sinistra che del lavoro dovrebbe fare il proprio cardine, come detta la Costituzione. Attorno a loro il silenzio ha cominciato a incrinarsi solo grazie a un appello firmato da una manciata di intellettuali, artisti e giuristi, ma molte, troppe, sono state e tuttora sono le assenze. Così che alcune domande si affacciano inevitabili.

Quand’è che abbiamo iniziato a normalizzare l’esistenza dei reparti confino? Quando abbiamo iniziato a considerare il suicidio dei cassintegrati un problema privato, impolitico, da respingere nel dominio della patologia individuale? Quando, senza nemmeno accorgercene, abbiamo iniziato ad assentire al discorso che criminalizza le espressioni non proceduralizzate del dissenso?

Il potere condiziona le nostre vite, determina gli spazi di libertà di cui possiamo godere: ciò che differenzia le democrazie dalle dittature è il bilanciamento esercitato da altri poteri. Per questo occorre una magistratura libera, un sindacato libero, una stampa libera. Quanto più questi spazi di libertà si restringono, tanto più diventano essenziali la satira, l’ironia, il paradosso, l’azione simbolica – che hanno la facoltà di andare dritto al cuore delle cose, strappando i veli alla realtà. La realtà è in sé, nel suo darsi, un accadimento politico radicale, tanto che un apparato di governance istituzionale e mediatico ha l’incessante compito di risignificarla.

I cinque licenziati di Nola, dopo aver vissuto per anni in una sorta di Truman Show che decretava la normalità della loro inesistenza sociale e lavorativa, l’insignificanza del suicidio dei loro compagni e delle loro stesse vite che andavano in pezzi, hanno deciso di spezzare la finzione. Hanno gridato rabbia e dolore, hanno scelto una lotta non violenta ma irriducibile, che li espone in prima persona, come può fare solo chi senta di non avere nulla da perdere, di avere nella dignità di un “no” la sola possibilità di esistenza.

Quanto sia imprevedibile l’alzarsi in piedi di qualcuno che, solo e impotente, grida in faccia al potere la verità, lo hanno mostrato nelle condizioni più estreme le madri dei desaparecidos argentini quando, nel 1974, prese il potere una dittatura che torturava e gettava in mare gli oppositori dagli aerei della Marina. Nella più assoluta disparità, le Madri riuscirono a far conoscere al mondo quel che accadeva nel loro paese. Erano donne di cinquant’anni, poco istruite, il cui mondo era andato in frantumi di fronte alla scomparsa dei figli. Il solo nominare i desaparecidos era motivo di arresto, così lo scrissero sulle banconote e con quelle andavano ogni giorno al mercato a fare la spesa. Lo scrissero su foglietti che infilavano nei messali la domenica mattina, prima delle funzioni. Si misero in testa quello che divenne il loro simbolo: un pannolino dei figli – conservato da quando erano piccoli, come erano solite fare tutte le madri – legato sotto il mento come un fazzoletto. Chi poteva strappare di testa a una madre il pannolino del figlio? Durante i Mondiali di calcio, quando la giunta voleva mostrare alle televisioni un paese sotto controllo, si intrufolarono in una parata militare e, passando tra le zampe dei cavalli, srotolarono uno striscione che denunciava la scomparsa dei figli. Prima di farselo strappare lo legarono a decine di palloncini e lo fecero volare sopra le teste dei generali, fotografato da mezzo mondo. Dire il vero, a ogni costo, è stata la loro politica.

Una decina d’anni fa la presidente delle Madres, Hebe de Bonafini, mi disse: «Prima del golpe, per fare una festa di compleanno con più di cinque persone dovevamo chiedere il permesso al commissariato, ma ci sembrava normale. La perdita della libertà è simile alle inondazioni: l’acqua sale poco per volta, ti ci abitui, ogni giorno misuri il livello e ti pare stazionario, oppure pensi che si sia spostato solo di poco, poi un giorno arriva l’onda che ti travolge, che spazza via tutto».

I cinque licenziati, la loro storia – e l’assassinio di Abd Elsalam Ahmed Eldanf durante un picchetto – ci dicono che l’acqua sta salendo e che non possiamo più far finta di niente.