Abbiamo incontrato la filosofa Ágnes Heller nel suo appartamento di Pest per parlare con lei di come il governo ungherese sta gestendo l’emergenza migranti.

Come valuta la politica di Orbán sull’immigrazione?

Orbán ha cominciato male perché prima ancora che arrivassero i migranti aveva diffuso nelle città dei cartelloni recanti messaggi capaci di incoraggiare l’avversione contro di loro. Anche ora mi è capitato di vederne alcuni con su scritto che secondo i sondaggi oltre il 90% degli ungheresi non vuole i migranti, ma non c’è da stupirsene perché il governo ha fatto di tutto per ottenere questo risultato. Posso dire che è diffuso il pregiudizio nei confronti di questa gente che ha una mentalità diversa, crede in un altro dio, ma aggiungo che un governo davvero democratico ha il compito di stimolare i buoni istinti, la volontà di aiutare, e non l’odio. Con questi presupposti la gente continuerà a provare avversione nei confronti di chi viene da fuori ma potrà avere la coscienza tranquilla e dire di essersi comportata in questo modo perché il governo glielo chiedeva. La cosa è stata gestita male dall’inizio, non c’erano interpreti di arabo, il governo ha riempito le città di questi manifesti e prima ancora che l’emergenza vera e propria iniziasse c’era già caos. Non sono stati neanche creati da subito dei punti nei quali si potessero eseguire le operazioni di registrazione, non è stato fatto niente in questo senso e ciò è pericoloso per l’Europa. Poi Orbán ha detto che quelli che vengono qui non sono dei profughi ma dei terroristi o gente che vuole la nostra ricchezza, il nostro lavoro, e questo non è vero. Quello che posso dire è che occorre procedere all’identificazione dei migranti; se questo non si fa possono passare il confine anche persone pericolose. Il paese non si è organizzato in questo senso e ne è nata una situazione caotica.

La politica del governo Orbán può essere vista anche con un atto dimostrativo contro l’Ue?

Direi che questa politica ha due funzioni: da una parte ha generato un conflitto tra il centro e la periferia dell’Europa al quale partecipano anche la Slovacchia e la Repubblica Ceca, dall’altra ha agito in termini di politica interna con una gara tra il Fidesz e Jobbik su chi riesce a incoraggiare più avversione. Credo che sia una competizione difficile, capace di far passare in secondo piano i problemi reali del paese. Se non ci fosse questa manipolazione dell’emergenza migranti la gente capirebbe che le cose non vanno bene in Ungheria, invece ha subito una campagna martellante su questo argomento e la sua attenzione nei confronti dei problemi interni è stata distolta. La politica di Orbán nei confronti dell’Europa può anche far sì che altri paesi piccoli della parte centro-orientale del continente dicano che se Orbán attacca l’Ue e non gli succede niente allora tanto vale seguire il suo esempio. Di fatto anche altri paesi della regione hanno imboccato questa strada.

Dopo il 1989 la gente si aspettava un’Europa senza steccati e ora assistiamo al ritorno delle recinzioni col filo spinato alle frontiere.

Sì, all’epoca sognavamo veramente un’Europa senza barriere e frontiere, caratterizzata dalla libera circolazione di persone e beni ma non è andata così. Ora vado in Messico a tenere una conferenza sul tema delle rivoluzioni. La domanda è: le rivoluzioni vengono tradite? Io dico di sì.

Quando ci siamo incontrati quattro anni fa e abbiamo parlato di Orbán lei l’ha definito affetto da bonapartismo. Ora?

Ribadisco il concetto. Orbán mostra tutti i sintomi del bonapartismo. Non è una definizione molto popolare in Ungheria dove si preferisce applicare l’etichetta di fascista o nazista. Io dico tuttora che quella del primo ministro ungherese è una politica caratterizzata da un atteggiamento bonapartista, ma la gente non mi capisce. Devo però dire che quando ho fatto questa osservazione a Parigi tutti hanno capito.

Come vede il fenomeno dell’immigrazione?

Come filosofa penso che continuerà. Magari potrà conoscere una fase di rallentamento ma non si fermerà. Le ricette alle quali si sta pensando per evitare che continui sono destinate a fallire. La comunicazione globale che avviene tramite la rete contribuisce al fenomeno e non si può tornare indietro. Un siriano ci mette un attimo a vedere su internet al computer o sul suo cellulare quanto guadagna un operaio in Germania. Una delle soluzioni alle quali si pensa è quella di mandare dei militari in Siria, ma io vedo solo un alternarsi di tiranni, uno se ne va e l’altro arriva, e la situazione non cambia. Lottiamo contro i trafficanti di esseri umani che cercano di portare la gente in Europa ed è un’operazione estremamente difficile. Da 60 anni lottiamo contro quelli che smerciano droga e il risultato l’abbiamo visto. Così con le soluzioni prospettate oggi, non ce la faremo. Poi c’è il problema della convivenza. L’Europa è fatta di stati nazionali che nella maggior parte dei casi si sono impegnati più sul fronte dell’assimilazione che su quello dell’integrazione. Questo orientamento porta inevitabilmente a uno scontro di ideologie. Tornando al fenomeno dell’immigrazione non posso ancora dire che siamo di fronte a una svolta storica, lo vedremo più avanti. Del resto i migranti che arrivano sono ancora lo 0.6% della popolazione europea. Si vedrà più avanti se stiamo entrando in una nuova fase della nostra storia. Una volta György Lukács ha detto che entrare in una nuova epoca è un po’ come camminare per strada e cercare di non calpestare una merda. Anch’io la penso così. Bisogna stare attenti.

Per Orbán questo consistente flusso di migranti minaccia la cultura europea.

Quale cultura? Quella del fascismo e del nazismo? Forse quella della Prima guerra mondiale o della Seconda, quella dei 6 milioni di persone nei lager, non so. O ancora quella del bolscevismo? Orbán non può fare questo genere di critica perché non è liberale, ha detto lui stesso di essere antiliberale. Io invece posso fare queste critiche perché sono liberale. Ci sono determinati valori in Europa, come ad esempio quello secondo cui ognuno deve essere libero e può fare quello che vuole. Questi sono i veri valori. Ma a dire il vero nel nostro continente il liberalismo non ha radici profonde neanche nei paesi occidentali, figuriamoci in quelli orientali.

Comunque c’è una certa inquietudine tra le gente a fronte del fenomeno dell’immigrazione.

Sì, la gente ha paura. In tutti noi c’è la paura di ciò che non conosciamo. L’importante però è che questo sentimento non si trasformi in ostilità. Si può anche essere curiosi, io lo sono, per esempio, e voglio conoscere chi è diverso. Spesso ci limitiamo a provare dispiacere di fronte alla tv quando vediamo i bambini africani che muoiono di fame o i siriani che vivono sotto le bombe. Ci limitiamo a questo e pensiamo che tutto sommato loro sono lì e noi siamo qui. In questo caso però il dispiacere è solo estetico e non si trasforma in empatia.

Il governo dice che la stampa internazionale ha avviato una campagna denigratoria nei confronti dell’Ungheria?

Devo dire che il più delle volte i media hanno raccontato correttamente quello che è successo in Ungheria in questo periodo, ma non tutti l’hanno fatto. Non tutti sono stati obiettivi. Hanno parlato di Orbán, di frontiere chiuse, di filo spinato ma non di quelli che hanno aiutato e aiutano ancora i migranti offrendo loro da bere, da mangiare e organizzando altre iniziative benefiche. Il comportamento di queste persone non è estetico ma etico.

Di recente Orbán ha proposto che i migranti vengano accolti in campi profughi situati nei paesi vicini agli scenari di guerra, sotto la supervisione dell’Ue.

Si tratta di una proposta così illogica che non vale nemmeno la pena di pensarci su. Qui in Ungheria abbiamo villaggi desolati, pressoché vuoti, oltre mezzo milione di ungheresi se n’è andato all’estero a lavorare e cresce l’età media, gli anziani sono sempre più numerosi. 10 mila persone potrebbero venire qui a ripopolare quei villaggi e fare lavori che noi non facciamo più. Ma cosa ha in testa Orbán?