«L’attesa è forte», scrive anche il Mattinale di Forza Italia, dove Berlusconi è ansioso di condividere con il governo almeno un pezzo della riforma della giustizia penale – considerando già fatta una «larga intesa» su quella civile. Oggi il ministro Andrea Orlando riprende il giro delle consultazioni, prima la maggioranza e domani le opposizioni, ma soprattutto svela la parte più delicata dell’annunciatissima riforma, quella che ruota attorno al Csm. L’ipotesi più accreditata è quella di un nuovo sistema elettorale per l’organo di autogoverno dei giudici incentrato sul voto disgiunto. La possibilità, cioè, di votare per candidati di liste diverse: dovrebbe limitare, nelle intenzioni, il potere di condizionamento delle correnti. Che è poi l’obiettivo dichiarato di Orlando, sulla linea di sempre più frequenti autocritiche da parte delle componenti organizzate della magistratura e soprattutto delle frequenti rampogne del capo dello stato agli ultimi due Csm. Il quale Giorgio Napolitano ha conosciuto in anteprima i piani del ministro, e li ha approvati.

Eppure il ministro si muove in territorio difficile. L’effetto concreto del cosiddetto panachage non è prevedibile con certezza. L’ultima riforma del Csm fu fatta 12 anni fa, ministro il leghista Castelli, esattamente con lo stesso obiettivo: ridurre il peso delle correnti togate. «Spoliticizzare», si diceva, il Consiglio, attraverso la costituzione di tre unici collegi nazionali (uno per i magistrati di Cassazione, uno per i giudici e uno per i pm). Il risultato è stato opposto e gli ultimi Consigli sono stati dominati da una logica di ferrea appartenenza. La riduzione dei componenti (da 30 a 24) non ha favorito la funzionalità, in compenso si sono sperimentate pratiche di pura guerriglia politica prima praticamente sconosciute, come per esempio far mancare il numero legale. La riforma Castelli assegna di fatto cinque posti in consiglio alla maggioranza parlamentare (e tre alle minoranze) col risultato che chi governa può bloccare qualsiasi decisione sgradita del plenum, che è in numero legale solo con la presenza di almeno 5 «laici». I berlusconiani non si sono mai fatti scrupolo di ricorrere a questo strumento più adatto a un’assemblea legislativa che di «autogoverno», bloccando a raffica i pareri contrari a tutte le spericolate leggi personali del Cavaliere (ma anche recentemente il parere sulla riforma della responsabilità civile dei giudici). Sulle nomine i problemi invece sono stati minori, segno che sull’argomento le correnti e i politici una qualche intesa sono sempre riusciti a trovarla, al prezzo di un allungamento dei tempi necessario a mettere assieme un «pacchetto» di nomine.

Recentemente, però, è stato proprio il presidente della Repubblica (e del Csm) a rallentare in qualche modo la delicata nomina del procuratore capo di Palermo: Napolitano a fine luglio chiese al Consiglio di seguire un rigoroso ordine temporale nelle nomine (Palermo veniva dopo altre) per non ingenerare il sospetto di scelte discrezionali dal momento che il vecchio Consiglio era in scadenza e sarebbe stato sostituito entro agosto dal nuovo. Pochi giorni dopo, però, esattamente il 31 luglio, sempre Napolitano ha dovuto prorogare l’attuale Csm, perché il parlamento non è riuscito a eleggere gli otto componenti che gli spettano. Ci riproverà l’11 settembre, quarto scrutinio, ma in questo modo secondo l’Anm sono state ritardate le nomine di oltre 250 capi degli uffici giudiziari. Come si vede non tutti i problemi del Csm possono essere messi in carico alle correnti, né l’eccesso di politicizzazione dei consiglieri togati può essere un argomento a disposizione di un governo dove continua a sedere (sottosegretario di Orlando) Cosimo Ferri, leader di una corrente della magistratura, da poco sorpreso a fare campagna elettorale per le elezioni del Csm.