«Userò parecchie voci per narrare la storia. Si sentiranno conversazioni registrate in forma di intervista, si vedranno scene diversissime che procedono contemporaneamente. C’è gente che scrive un libro su di lui, diversi libri. Documentari, fotografie, film, nastri. Tante testimonianze… Pensa che sfida il montaggio, e che divertimento». Così nel 1970, in un bungalow nel giardino pieno di palme del Beverly Hills Hotel, Orson Welles descriveva a Peter Bogdanovich il film che stava per realizzare, The Other Side of the Wind. Si sarebbe trattato della storia di un vecchio regista, Jack Hannaford, nelle parole di Welles: «Un macho, uno di quegli uomini con il petto villoso», il giorno del suo settantesimo compleanno, che sarebbe stato anche il giorno della sua morte, in un incidente d’auto, dopo aver partecipato a una festa in suo onore piena esponenti della Nuova e vecchia Hollywood. Come Quarto potere, Wind sarebbe stato un film raccontato quasi interamente dopo la morte del suo protagonista – un puzzle fatto di fonti diverse, supporti diversi (tra cui 8mm e fotografie), documentario e fiction.

 

 

 

Quasi mezzo secolo dopo, nell’anno del centenario della nascita di Welles (che cade domani), tra uno studio di postproduzione di Los Angeles e Parigi, dove il negativo del suo ultimo, mitico film mai portato a termine è stato custodito tutto questo tempo, un gruppo di produttori si sta cimentando con la sfida che Welles aveva creato per se stesso. Impossibile sapere se si stiano o meno divertendo – l’operazione è avvolta dal segreto più totale, costruita com’è su equilibri difficilissimi – personali, creativi e di aventi diritti. Ma, come annunciato qualche mese fa, Wind potrebbe finalmente vedere la luce del sole entro la fine del 2015.

 

 

Tra le ultime aggiunte alle celebrazioni del centenario (che includono anche proiezioni di alcuni suo film restaurati al Festival di Cannes), The Other Side of The Wind è diventato anche il soggetto di un libro,una turbinosa avventura backstage il cui cast include oltre a Welles, a John Huston (nel ruolo di Hannaford), Peter Bogdanovich (in quello di un giovane regista emergente e molto pieno di sé), al biografo di Welles Joe McBride (in quello di un critico pomposo) e alle attrici Mercedes McCambridge e Susan Strasberg, anche la bellissima artista croata, co-star del film e amante di Welles, Oja Kodar, il cognato dello scià d’Iran, parecchi produttori hollywoodiani più o meno illuminati, Pauline Kael, un gruppo di nani che non si materializzeranno mai, e Clint Eastwood.Con moto molto arkadiniano, l’avventura zigzaga tra Beverly Hills e Madrid, Parigi, Bel Air, una casa scavata nella roccia in un paesino dell’Arizona che si chiama Carefree (senza preoccupazioni) e Teheran nei giorni della rivoluzione.

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Concepito agli albori della New Hollywood, Wind – e la sua produzione – respirano l’aria e l’estetica dei giovanissimi easy riders e raging bulls che stavano per abbattere i cancelli degli Studios. Ma quei cancelli, ci ricorda Karp, rimangono chiusi per il cinquantacinquenne Welles – immenso, vulcanico, instancabile, e sempre seducente, nella sua completa irraggiungibilità – che manteneva se stesso, il suo lavoro di regista e il suo vorticoso life style (tra le debolezze: i sigari e la bibita Fresca) apparendo in film altrui o in spot pubblicitari per un vino a basso costo.

 

 

Lo scarto generazionale – previsto nella trama del film ma intrinseco alla realtà delle sue circostanze (alla sua uscita, nel 1971, L’ultimo spettacolo di Bogdanovich venne paragonato da molti a Quarto potere) è la linea rossa che attraversa Wind e il libro di Karp. E questo film, che Bogdanovich (oggi presumibilmente al lavoro sulla ricostruzione) definì «una delle cose migliori di Orson, da quel poco che ho visto», porta con sé una qualità «meta» e sperimentale che ci ricorda l’ultima opera di un altro grande autore americano dalla carriera tormentata (anche se non quanto quella di Welles), Nicholas Ray, e il suo We Can’t Go Home Again, girato con gli studenti del college dove insegnava, e uscito in una prima versione nel 1973.

 

 

 

 

 

Dalle liti molto pubbliche con i critici Pauline Kael e Charles Higham (il cui libro cementò l’idea che l’incompiutezza per Welles fosse una patologia), alla devozione dei collaboratori di Welles (oltre a Bogdanovich e McBride il direttore della fotografia Gary Greaver che forse deve a Wind il fallimento di tre matrimoni), a una famosa lite con Ernest Hemingway, al giorno in cui il regista fece una scenata all’assistente di produzione perché il pranzo non era composti di panini che avrebbero permesso alla troupe di mangiare con una mano sola e di continuare a lavorare con l’altra, il libro è fatto di aneddoti noti e non. Descritta è la serata del 1975 in cui Welles presentò alcuni minuti di Wind accettando un’onoreficenza dell’American Film Institute.

 

 

 

 

In un passaggio il regista racconta di aver montato una scena di quattro minuti con 500 inquadrature diverse girate nell’arco di quattro anni. In un altro (di nuovo molto Arkadin), per pura scenografia, Welles include in un suo meeting con il produttore Danny Selznick (inviato dalla Universal, che era interessata a Wind) un individuo in sedia a rotelle, abito bianco e camicia color lavanda che fuma Gauloises; la sua presenza, muta, in un angolo della stanza, intesa esclusivamente per creare un’aura di mistero.

 
Karp torna più volte sull’idea che Wind fosse un film «a chiave» e che in Hannaford, Welles avesse messo molto di se stesso. Un’ipotesi più che plausibile a cui il regista ha spesso risposto evocando il su primo capolavoro: «Non cercate delle chiavi. Non sono mai stato su una slitta». Orson Welles è nato il 6 maggio 1915 a Kenosha, in Wisconsin. É morto il 10 ottobre 1985, a Los Angeles. Come Jack Hannaford aveva 70 anni.