La tradizione dei discorsi a tavola ha grandi meriti, primo fra tutti tramandare opinioni che, nelle versioni ufficiali dei fatti, restano in sottofondo; o tramandare fatti che, nelle opinioni rese note, restano ugualmente in sottofondo. Da entrambi i punti di vista A pranzo con Orson Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles, a cura di Peter Biskind (nella bella traduzione di Mariagrazia Gini, con uno scritto di Tatti Sanguineti, Adelphi, pp. 340, euro 26,00) è un libro mirabile, considerato che il commensale eletto a titolo ha sempre avuto con la realtà e con la verità un rapporto altrettanto disinvolto che con la menzogna, il falso, la burla, il fantastico: fatti e opinioni, in Orson Welles, sono sempre anche umori, idiosincrasie, passioni, paradossi.

Le conversazioni a tavola coprono gli anni 1983-1985, gli ultimi tre del prodigio che quaranta e passa anni prima aveva messo sotto gli occhi del mondo Quarto potere, lasciandolo seguire, tra controversie crescenti, da una serie di capolavori, contemporaneamente incamminandosi verso il baratro. Prendere conoscenza di questo baratro è la migliore introduzione al libro, il suo paesaggio mentale; così nulla varrà meglio delle righe che aprono la notevole appendice firmata da Biskind – che contiene anche uno schedario parziale degli innumerevoli personaggi che compaiono, parlando parlando, tra una portata e l’altra: «Orson Welles lasciò incompiuta una tale quantità di lungometraggi, sceneggiature, trattamenti e pitch, oltre a trailer, test, corti, spezzoni e film brevi d’ogni sorta, che è praticamente impossibile determinarne il numero preciso. Alla sua morte Welles lasciò diciannove progetti incompleti». Di quattro si parla nelle conversazioni: Don Chisciotte, I Sognatori, Re Lear, The Other Side of the Wind. Il baratro, il punto di risucchio di tutte le conversazioni è questo percorso verso l’incompiuto e il fallimento, visto magari, al modo di Faulkner, come una tentazione; e dunque costeggiato e corteggiato anche con autocompiacimento ed esibizionismo da parte di Welles, come un punto di strenuo narcisismo che diventa prima un tratto di poetica e poi un disastro soprattutto per le finanze oltre che per il vedersi messo in secondo piano rispetto a tanti infinitamente di lui meno dotati (si può dire «dotato» parlando di Orson? Non si potrebbe, è una categoria impropria per chi ha genio e tale intelligenza delle cose).

Così il grande Orson da subito, e sempre più procedendo, sembra intossicato dal veleno di una vita presunta ostile, e sembra spruzzarne su ogni argomento trattato, per necessità di vivere e perché ne trae energia: una lotta affidata alla retorica del veleno, ovvero al veleno organizzato come una retorica, come un sopraffino meccanismo di difesa che in ogni secondo è memore del detto che non esiste miglior difesa dell’attacco (ma qui ogni attacco è, seppure remotamente, reattivo verso un altro attacco, non si sa mai se vero o immaginario). Nessuno, letteralmente nessuno dei nomi fatti (forse con una mezza dozzina di eccezioni, via, compresi von Stroheim e John Ford e La grande illusione) è esente da parole che al minimo sono di sprezzo, al massimo di vilipendio. Eppure, nonostante tutto, il libro, nemmeno rassegnato, sembra stranamente senza rancore: a suo modo disperato e allegro, farsesco per disincantamento, ebbro di amarezza.

A differenza che nelle conversazioni con Peter Bogdanovich (che, a pranzo, Orson non nasconde di non sopportare più), qui Welles tende a uscire spesso dal mondo di celluloide: saprà il cinefilo vedere che nella faziosità è conoscenza? Che effetto potrà mai fare la riduzione a niente della Finestra sul cortile e della Donna che visse due volte? E sarà benefica la misurazione della vanità di Chaplin? Ognuno decide per sé, ovvio, come è chiaro che, a pranzo (ma Welles mangiava ormai pochissimo, pare), chiunque può tranciare qualunque giudizio. Senza correttezze politiche o storiche. Si va apposta a pranzo o a cena insieme. Ma qui parla Orson: un pensiero potente, filigranato dal gusto dell’autore di F for Fake. Che, meditando sul suo Shakespeare, e sulla congetturabile pinguedine di Amleto, lanciando sassi su Laurence Olivier, qualche indulgenza può concedere solo all’eventuale intervistatore televisivo che, avendolo ospite, non esordisca (molti se ne sentono in obbligo), alludendo alla sua tarda obesità: come non capirlo: sull’argomento chiunque va con naturalezza oltre la propria consueta stronzaggine.

Per citare solo una delle migliaia di citazioni possibili (la battuta verso un cameriere o verso una celebrità che si avvicina al tavolo senza sapere che cosa si saetterà appena se ne sia allontanata) a proposito di storia e correttezza ed egocentrismo: «OW: “Un dittatore alto non è mai esistito. Mai”. HJ: “O dio santo”. OW: “Fammi un nome. Sono tutti al di sotto del normale”. HJ: “Mussolini era basso?”. OW: “Bassissimo”. HJ: “Franco?”. OW: “Basso. Hitler era basso. Anche quelli che magari ti potrebbero piacere un po’ di più, come Tito: un piccoletto. Stalin: un piccoletto»: HJ: «Una nuova teoria della storia». OW: «Guarda che i grandi malinconici sono tutti giganti, non tappi. Sono i tappi e i nani che hanno le manie di grandezza». HJ: “Tu quanto sei alto?”. OW. “Una volta ero un metro e novantuno, ma adesso sono sull’uno e ottantotto. Uno e ottantasette, forse. Continuo a perdere collo. È la forza di gravità. Come Elizabeth Taylor: ormai è senza collo! Le orecchie le toccano le spalle. Ed è ancora giovane! Ora immagina dove sarà la sua faccia quando avrà la mia età. Nell’ombelico, no?”». Moltiplicate un tono così per trecento e comincerete a intuire che cos’è questo libro.

Come è stato confezionato A pranzo con Orson? L’interlocutore, già montatore di Easy Riders, esordiente poi alla regia con Un posto tranquillo (1971), il registratore nascosto (così voleva Orson), le bobine lasciate dormire per anni. Un abile montaggio del terzo uomo, il terzo nome in copertina, Peter Biskind, l’autore (1998) di Easy Riders, Raging Bulls: come la generazione sesso-droga-rock’n’roll ha salvato Hollywood, secondo il titolo della traduzione italiana del 2007 (E&S): saggio su una delle rinascite del cinema americano (quella legata a Scorsese, Coppola, Spielberg e De Niro, Pacino, Nicholson) realizzato attraverso centinaia di interviste a coloro che girarono intorno a quella stagione. Dopo quel libro, il taglia e cuci di A pranzo con Orson non deve essere stato troppo inameno.

L’11 ottobre del 1985 Welles muore, all’una di notte, con la macchina da scrivere in braccio, scrivendo un altro progetto che non si realizzerà. Scrive Jaglom: «l’ho guardato alla moviola in Qualcuno da amare, che sto montando, quando dice che si nasce, si vive e si muore soli. “Soltanto con l’amore e l’amicizia si crea l’illusione di non essere completamente soli” dice, e questa è la sua ultima apparizione cinematografica, la sua ultima scrittura da attore». Il 6 maggio scorso Orson avrebbe compiuto cento anni, ricorda Tatti Sanguineti all’inizio del suo elegante vagabondaggio critico tra le peripezie di Welles in Italia. Leggendolo, si vede ancora una volta come l’autore di F for Fake, il re del falso in quanto autentico, con una di quelle inattese, insospettate prove di agilità che possono consentirsi senza sforzo solo uomini di grande peso, è stato anche l’autore di It’s All True (Tutto è verità). Diceva di essere un illusionista dilettante ed era un mago provetto, dilettante solo per la gioia che quell’arte gli procurava.