Il solerte martellamento sull’immigrazione delle ultime due settimane ha pagato. Sono un paio di giorni che i sondaggi danno in vantaggio il Leave di sei o sette punti e ormai panico (ed entusiasmo) sono diffusi. A destra come a sinistra, nella Camera dei comuni gli schieramenti sono agitati come i Martini dry del Bond nazionale. Ma se il Labour ha le sue magagne, costituite soprattutto dall’atteggiamento di un Corbyn che non si scalmana a favore del Remain, è nelle file dei conservatori che questo referendum ha creato una faglia che sarà quasi del tutto impossibile ricomporre, qualunque sarà l’esito.

In un’estrema riedizione di quella che gli «uscenti» puntualmente definiscono profezie isteriche di sciagura, il cancelliere George Osborne, obbedientemente affiancato da un suo predecessore laburista degli anni d’oro, il redivivo Alistair Darling, ha annunciato in aula che l’uscita dall’Unione produrrà un buco di trenta miliardi di sterline per colmare il quale dovrà alzare le tasse sul reddito e quelle di successione. La minaccia di una manovra di emergenza è l’ennesimo tentativo, il suo, di spaventare quelli che in buona parte sono anche elet-tory: quella Middle England proprietaria e pensionata col pratino chirurgico, la veranda bianca e in garage la Range Rover, concentrata soprattutto a sud del paese.

La cosa ha scatenato le ire di ben 57 deputati euroscettici del suo stesso partito, tra cui spiccavano il ministro neodimissionario Iain Duncan Smith e Liam Fox, che hanno giurato non solo di votare contro il budget post-exit del cancelliere, ma di volerlo esonerare dal dicastero, in rappresaglia contro quella che considerano una finanziaria punitiva. Mentre il collega euroscettico alla Giustizia, Michael Gove, ha già messo in cantiere le leggi di attuazione di un eventuale divorzio da Bruxelles. Sommando i loro voti a quelli di un Labour compattamente avverso è chiaro che il vascello di Osborne è affondato prima del varo.

Il Leave è convinto di poter negoziare un nuovo trattato di libero scambio con l’Ue pur non facendone parte.

Ieri sul Tamigi, all’altezza di Tower Bridge, c’è stato uno spettacolare exploit a metà fra la rievocazione storica e la trovata pubblicitaria che avrebbe inorgoglito Francis Drake. Il leader dell’Ukip Nigel Farage, inedito nocchiero di una flottiglia di pescherecci pro-Leave – i pescatori inglesi sono avvelenati per le discriminazioni sulle quote ittiche stabilite dall’Ue, che considerano draconiane – ha ingaggiato uno scontro verbale a colpi di megafono contro vari navigli pro-Remain ammiragliati dal baronetto multimilionario irlandese Bob Geldof. La filibusta di Farage, intenzionato a raggiungere Westminster via fiume per protestare contro il premier Cameron che ieri ha tenuto l’ultimo Question Time ai Comuni prima del voto del 23 giugno, si è fieramente battuta nella scaramuccia – per fortuna solo verbale – e nessuno è colato a picco. Pareva Dunkirk, la precipitosa evacuazione della seconda guerra mondiale magistralmente tramutata in vittoria attraverso un’appropriata narrazione storica.

Tanta commozione è naturalmente dovuta ai continui sondaggi. Che, pur incarnando l’aspetto più onanista della social society contemporanea, sono sempre meno attendibili. Sebbene tutti sappiano che hanno toppato clamorosamente in due recenti occasioni – il referendum scozzese del 2014 e soprattutto le politiche del 2015 – non si può fare a meno di reagire pavlovianamente a ogni loro aggiornamento. E poi, anche se dovessero essere smentiti da una larga vittoria del Remain, l’otto volante isterico dell’ultima settimana fa parte dell’ebbrezza da intrattenimento di questa liberal-democrazia.

Ma una cosa pare chiara. Rispetto all’Europa, questa Gran Bretagna fa pensare sempre più a Ecce bombo di Nanni Moretti: tra l’esserci stando in disparte e il non esserci proprio sembra preferire la seconda soluzione. Di sicuro, ora, tutti la notano di più.