Antonio Domenico Trivilino arrivò la prima volta a Oslo nel 1972 dall’Islanda con una borsa di studio per apprendere la lingua norvegese, ma l’interesse per la Scandinavia nacque nel corso di una discussione nelle aule universitarie su chi fosse il primo paese democratico europeo. I suoi compagni pensavano alla Magna carta inglese, mentre lui sosteneva che fosse l’Islanda. «Allora, un mio amico disse: “Visto che ti piace così tanto, ho saputo c’è una borsa di studio per Reikiavik”. Ce ne era una sola per gli studenti italiani, non pensavo di riuscirci, invece partecipai e vinsi».

Il suo sogno, quello di diventare esperto della cultura della Scandinavia, dopo 42 è diventato da tempo realtà, da una scommessa vinta la sua vita è proseguita qui dove si è sposato con Marit, è padre di due figli, da molti anni il Presidente dell’Associazione italiani in Norvegia e il direttore di un foglio quindicinale che cura da un quarto di secolo, «L’Aurora». Ma è anche un imbattibile autore di necrologi d’italiani scomparsi vissuti in precedenza nella capitale norvegese, che pubblica sulla pagina dedicata del quotidiano Aftenposten, dove racconta luci e ombre della loro vita di uomini non illustri in piccole biografie narrative.

Dopo la laurea in Storia dell’arte e letteratura comparata, ha cominciato come insegnante d’italiano, poi è andato a lavorare al Ministero degli esteri nella segreteria dell’Istituto di cultura, quindi all’Enit come addetto alla promozione del turismo, fino alla chiusura, e la sua carriera si è conclusa al Nav, l’equivalente norvegese dell’Inps, dove si occupava della cassa malattia dei marinai, la copertura delle spese mediche dei pensionati di guerra norvegesi residenti all’estero, ruolo che gli ha fatto conoscere Gunnar Fridtjof Sønsteby, l’eroe della resistenza che compì numerosi sabotaggi e fu uno degli uomini più ricercati dalla Gestapo.

«La Norvegia è cambiata moltissimo», dice quest’uomo piccolo di statura, gli occhiali da vista senza montatura, stretto in un cappotto di renna, «il divario tra le persone è cresciuto, una volta i ricchi si mescolavano con i poveri, un operaio norvegese era pagato molto bene, il suo direttore guadagnava solo il doppio. Il welfare è sotto attacco, e gli stranieri sono il cavallo di troia per distruggerlo», dice mentre passeggiamo dalle parti della fermata della metropolitana di Majorstuan, il quartiere dove abita da trent’anni in una casa accogliente all’ultimo piano di una palazzina residenziale.

Beviamo un caffè lungo seduti ai tavolini del Kaffebrenneriet, con le coperte sulle ginocchia, il locale frequentato ogni giorno da Jo Nesbø, giallista e cantante della band Di Derre. Dice che quando lui arrivò nei primi anni Settanta, le donne che lavavano i negozi, i supermercati o i treni erano tutte norvegesi, le chiamavano «bøtteballet» (il balletto dei secchi), oggi questi lavori vengono fatti da uomini pakistani e marocchini; e proprio in quegli anni il petrolio è diventata una delle fonti di ricchezza della nazione, che oltre ad essere produttore è un paese all’avanguardia nella ricerca e nell’estrazione del greggio in mare, esportatore in tutto il mondo di queste tecnologie, e la cosa ha aumentato il divario, stimolando la competizione tra le classi manageriali.

Quando arrivò nel 1974 il governo stava per chiudere le porte agli stranieri, ma la popolazione ad Oslo dai 200 mila abitanti dei primi del ‘900 era già lievitata a mezzo milione. «Nella città universitaria c’erano ancora tensione e razzismo, con gli uomini i rapporti erano tesi, anche se l’intolleranza si stava spostando dagli italiani e gli spagnoli verso i nordafricani, i marocchini, e arrivavano allora anche i pakistani, che venivano accusati di puzzare di aglio e curry». Si ricorda una Oslo molto provinciale, con una vita pubblica che significava soprattutto recarsi a sciare a Sognavano andare in bicicletta al mare a Bygdøy, dove si trova una spiaggia di sassi, ma anche una di sabbia.

Allora insegnava la lingua italiana ai figli dei suoi connazionali, che si dividevano in due categorie, quelli con vite professionali alte, che non si sentivano emigrati, i quali frequentavano l’Istituto italiano di cultura, e i lavoratori generici, camerieri, cuochi, piastrellisti, barbieri e operai, che si ritrovavano al Circolo, gestito allora da Franco Belvisi, un ex combattente fascista della X Mas, il quale generosamente aiutò molte persone che arrivavano in cerca di lavoro. Nel 1974 ancora venivano a Oslo parecchi italiani, «bastavano due braccia, e si trovava lavoro subito da lavapiatti, oppure da meccanici, camerieri, e tanta gente legata alla ristrutturazione edilizia come imbianchini, muratori», racconta, mentre saliamo su un trenino della metropolitana in questo quartiere abitato da gente colta e mediamente abbiente.

Insieme al suo amico Franco Duraturo, rifonda il Circolo nel 1992, la sede è a Sagene, in Sarpsborggate 7, una vecchia stalla domicilio di parecchie associazioni, anche latinoamericane. «Noi ce l’abbiamo a disposizione il venerdì, e lì una volta facevamo la festa della befana, quella delle castagne a novembre, il cenone natalizio. I nostri soci o sono morti o sono tornati in Italia, gli altri, che saranno un centinaio, continuano a partecipare; non abbiamo perso iscritti ma non siamo stati capaci di attivare i nuovi italiani». Il motivo è una grande differenza di età, e poi sono persone quasi tutte laureate che non si sentono immigrate, «e poi la città è cambiata, trovi bar da tutte le parti e cibi italiani ovunque, pensare che noi importavamo persino i panettoni, un altro mondo!».

Negli ultimi trent’anni Trivilino ha fatto parte della Consulta degli immigrati del comune di Oslo, «Non ho mai difeso i diritti solo degli italiani, che sono una esigua minoranza, ma di tutti. Quello che mi ha sempre stupito è il fatto di venire eletto dagli indiani, pakistani, africani. Li ho invitati a cercare di mantenere anche la propria identità, altrimenti diventi una brutta copia dei norvegesi, più norvegese dei norvegesi, qualcosa di ridicolo». In tutto questo tempo ha visto uno dei paesi tra i più poveri d’Europa trasformarsi in uno dei più ricchi, e continuare a dividere «noi e loro», «ho visto che qualsiasi cosa facevamo era giudicata in modo sbagliato, se non lavoravi eri un parassita, se lavoravi toglievi il posto di lavoro ai norvegesi, se ti sposavi con una donna di Oslo rubavi le donne, se non ti sposavi non ti integravi». Gli stranieri, secondo lui, generano sempre lavoro, solo l’insegnamento della lingua crea occupazione, perché gli stranieri producono e consumano, e hanno bisogno di case, con loro si creano più possibilità per tutti.

«Cè un indietreggiamento molto forte, i ricchi sono diventati più ricchi, così è nata un’indifferenza molto forte», dice mentre il trenino sferragliando nelle gallerie procede a tutta velocità. Vicino a noi è seduto un ragazzo africano che sembra dormire, ma quando due vigilantes arrivano e cercano di svegliarlo non si muove, resta rannicchiato al suo posto. Stanno impalati lì davanti, ogni tanto lo scuotono, ma quello sembra privo di sensi e a un certo punto gli scivola dalle mani il telefonino e cade in terra. Allora Trivilino s’innervosisce, chiede ai vigilantes di avvertire un medico, forse il ragazzo africano sta male. I due allora chiamano qualcuno, e poco dopo arrivano altri due colleghi, ma la situazione non cambia, fin quando alla nostra fermata, Nationaltheatret, non lo staccano di peso posizionandolo in terra sulla banchina.

«Tu non te ne sei accorto, ma stavo per saltare addosso alle guardie, quel ragazzo era un doppio rifiuto umano, drogato e nero, e in una delle società più ricche dell’occidente», mi ha detto mentre salivamo sulle scale mobili, continuando a guardare male i vigilantes. «Se non fossi stato con te, avrei chiesto loro il numero di matricola e li avrei denunciati. Sai, certe volte penso che quello che ho fatto in tutti questi anni non è servito a niente. Però non mi fermo, so che adesso non solo bisogna fare, ma bisogna fare di più», dice mentre sbuchiamo sulla piazza innevata, stringendoci nei nostri giacconi.