L’ambivalenza, un tempo forse meno riconosciuta, riconoscibile e confessabile come dinamica sottesa alla «irrazionalità» e «incongruenza» che il giudizio maschile imputava – e spesso tuttora imputa – ai comportamenti femminili considerati privi di «ragionevolezza», ha perso la sua connotazione di «duplicità bugiarda» per assumere le connotazioni di un sentire che sembra governare in modo particolare le relazioni tra donne, nella sfera privata e in quella sociale e politica. L’ambivalenza, fuori dal suo ambito psico(pato)logico, ci appare sempre più come ciò che consente di tenere insieme le parti diverse e a volte conflittuali del proprio sé. È nel rapporto tra l’Io e il mondo che, più in generale, il riconoscimento e l’accettazione del nostro essere ambivalenti ci obbliga a una riformulazione della categoria di «soggetto», alla sua scomposizione e al suo scardinamento.

L’ambivalenza «del» testo, riguarda il tratto radicalmente e ineludibilmente fondante della «letterarietà» del testo letterario – sempre a metà strada tra verità e finzione, tra l’ancoraggio al «reale» e il «volo della mente». Questo gioco tra realtà e finzione, immaginario e fattuale, è tanto più delicato nel tumultuoso svolgimento degli eventi politico-istituzionali che hanno plasmato per circa sette decenni la vita italiana dall’inizio del Novecento ne L’arte della gioia di Goliarda Sapienza; le vicende politiche italiane degli ultimi settant’anni e quelle più locali, ma pur sempre intimamente incardinate con la più ampia storia nazionale, nella quadrilogia de L’amica geniale di Elena Ferrante; e le politiche americane di controllo dei flussi migratori e in particolare l’incoraggiamento dei ricongiungimenti familiari per le «spose per corrispondenza» giapponesi nel periodo tra le due guerre mondiali e le successive misure poliziesche verso la comunità giapponese dopo Pearl Harbour in Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka.

Se la classica letteratura sul «doppio» mantiene drammaticamente separate «le due metà» fino alla catastrofe finale, il gioco del doppio si dispiega anche – in tanta letteratura, soprattutto in quella scritta da donne – nella relazione madre-figlia. Roberta Mazzanti ne segue l’incessante presenza-con-variazioni nel corpus narrativo e saggistico di Ferrante, analizzando l’alternarsi di sostituzioni e slittamenti in una variegata gamma di triangolazioni in cui l’endiadi madre-figlia si integra e si complica di volta in volta con sorelle, amiche, figliolette e persino bambole, includendo rapporti di fusione e separazione, protezione e competizione, desiderio e repulsione, in un quadro di quasi ossessiva presenza-assenza della madre naturale e di sua costante, ma instabile, sostituzione con doppi reali o immaginati nel corso del lungo, faticoso divenire a cui Ferrante si riferisce con il termine diventare.

In Otsuka prevale invece, in più punti, l’angoscia di un «non essere più», che si aggiunge al «non essere ancora» . Una impasse che caratterizza la condizione di molte (e molti) migranti. Su questa condizione, riferita alle successive ondate e generazioni di migranti su suolo italiano negli ultimi decenni, si interroga l’intervento di Monica Luongo, con un’attenzione particolare alla diversa ambivalenza connessa con i vari progetti migratori di uomini e soprattutto donne di diverse appartenenze etniche. In Otsuka la sfumata omogeneità del «noi» si spezza ulteriormente nel rapporto con la nuova generazione nata nel nuovo mondo e portatrice di una diversità sconcertante, di una ambivalenza profonda tra la cultura dei genitori immigrati e quella della comunità ospitante.
Questa mutazione è stata raccontata tante volte con accenti diversi e mediante linguaggi diversi. Si pensi ad esempio alla videoinstallazione ideata nel 2002 da Zineb Sedira con il titolo Mother Tongue (Lingua madre) discussa nel contributo di Cristina Giudice.

La componente memoriale è un altro aspetto costitutivo dell’ambivalenza identitaria che si manifesta attraverso il riaffiorare di un sé precedente che non è mai definitivamente perduto, né mai completamente (o semplicisticamente) ritrovato. Sapienza ce ne mostra l’inevitabilità in molte tappe del «divenire» di Modesta, come sottolinea Marta Cariello.
L’accezione articolata e complessa del concetto di «ambivalenza» tende a superare le nette contrapposizioni binarie a favore di una visione sfumata e resiliente che tolleri, inevitabilmente, anche zone di «opacità» (Serena Guarracino, Laura Marzi-Francesca Maffioli); sostituisce la logica dell’aut-aut con il tentativo di tenere insieme i due corni della contraddizione senza escluderla per arrivare a una scelta univoca, positivamente marcata da una pretesa, ragionevole ma spesso astratta e talvolta autodistruttiva, coerenza.

Negli scritti di Ferrante quel momento di crisi si manifesta con un malessere tra il fisico e lo psichico, definito «frantumaglia» nel volume omonimo e che Lila esperisce come «smarginatura», quando diventa per lei insopportabile il binarismo della normatività sociale e di genere, quando più si rende conto delle pressioni socioculturali esercitate su di lei dal rione, dalla famiglia, dagli amici e dalla cricca camorristica locale, nell’ambito sessuale (o più ampiamente di genere) e in quello del potere. Ne parlano Lidia Curti e Ambra Pirri, riferendosi anche alla categoria freudiana del «perturbante». Modesta, da parte sua, pur esercitando in modo supremo l’arte di smarcarsi dai cliché e schivare le gabbie del conformismo, precipita occasionalmente in stati di ritiro psichico e di sospensione della vita; mentre le «noi» di Otsuka sentono di scomparire, diventare fantasmi, quando diventa troppo grande la frattura tra la realtà ostile e le loro aspettative e progetti di vita.

Più che l’antitesi di opposti inconciliabili, la figura retorica più adatta a definire le condizioni esistenziali vissute dalle personagge nei loro travagliati percorsi biografici è piuttosto quella dell’ossimoro, richiamato nel contributo di Paola Bono, figura del fecondo intreccio tra diversità, foriera di novità e rinnovamento; esempio di «soggetto eccentrico» nel senso anti-identitario proposto da Teresa de Lauretis e dalla teoria queer.
Ma può valere, ad esempio, in altro modo anche per la «riscrittura» teatrale della storia di una Modesta immaginata, prefigurata per forza di desiderio da Sylvia De Fanti a confronto con la figura di Sant’Agata, patrona di una città, Catania, che le dedica una festa «sacrissima e profanissima in quanto tale eccede».

La discussione del soggetto queer, accennata anche nel saggio di Pirri, costituisce la base dell’intervento di Antonia Anna Ferrante la quale parte da un’attenta analisi delle posizioni di genere incarnate nelle personagge di Sapienza e di Ferrante, per proporre un dialogo immaginario di queste due autrici con Carla Lonzi e Paul B . Preciado. Raccontare storie e relazioni non ancora raccontate, prevedere (ossimoricamente) l’imprevisto, come ci invita a fare Nadia Setti, può portare a scoprire che nel gioco dell’uno, del doppio, delle simili ma non uguali, l’identità sempre rincorsa è un’illusione, un bluff, non la si raggiunge mai: «Non ci sono punti fermi. I punti fermi sarebbero le certezze, la ripetizione e la conferma dell’immagine di sé e dell’altra, la persistenza del desiderio». Niente a che fare con l’esigenza di significare nella scrittura – e nella lettura – il nomadismo, l’impermanenza, il continuo divenire di un sé in relazione.