La storia di Otello ha debuttato all’opera ben prima che Gioacchino Rossini componesse nel 1816 il suo Otello o sia Il moro di Venezia, su libretto di Francesco Berio di Salsa. Già da una ventina d’anni imperversavano nei teatri lirici italiani i più disparati adattamenti di Zaïre (1732) di Voltaire, vera e propria riscrittura dell’Othello (1603) di William Shakespeare: il fenomeno si protrarrà per un altro mezzo secolo, passando per Zaira (1829) di Bellini. Nel 1808 era andato in scena a Napoli il balletto Otello, ossia Il moro di Venezia di Louis Henry, il cui programma condivideva con il libretto di Berio di Salsa la fonte: Othello ou Le More de Venise (1792), adattamento dell’accademico di Francia Jean-François Ducis, che riduceva l’originale shakespeariano a una trama pronta per il melodramma: l’eroe e l’eroina si amano osteggiati dal padre di lei, che la promette in sposa a un altro, provocando la gelosia dell’eroe, che crede l’eroina infedele.

Occorrerà aspettare il debutto milanese nel 1887 di Otello di Giuseppe Verdi per avere la prima versione lirica «filologica» della tragedia inglese, che restituisca a Jago tutta la sua luciferina centralità. Rossini da par suo realizza un’opera schizomorfa: nei primi due atti impazza un triangolo di tenori, uno baritonale (Otello), uno contraltino (Rodrigo), uno più leggero (Jago), tutti e tre con tessiture acutissime, che incrociano ogni tanto un basso (Elmiro), dando vita a numeri chiusi tradizionali nelle forme e negli sviluppi; il terzo atto, tutto incentrato sul soprano (Desdemona), è invece costruito come un’arcata drammatica unica, in cui i numeri chiusi tendono a dissolversi e maggiore si fa la ricchezza armonica.

L’allestimento in scena in questi giorni al Teatro alla Scala di Milano ha grandi pregi e grandi difetti. Il cast dei cantanti è strepitoso: Gregory Kunde, che detiene il primato di avere in repertorio contemporaneamente l’Otello sia di Rossini che di Verdi, scolpisce un protagonista memorabile, voluminoso, sonoro e pieno in tutta la tessitura, accusando solo un po’ di fatica nell’ultimo atto; Juan Diego Florez, con le sue doti e la sua tecnica inossidabili, dà voce a un’antagonista che sembra forgiato dalle mani dello stesso Rossini; Edgardo Rocha (Jago) mostra grande slancio verso l’acuto, ma sconta un po’ di flebilità; Olga Peretyatko ha una voce non molto voluminosa, ma il timbro, la tecnica e il fraseggio le permettono di fare suo visceralmente l’atto finale, cesellato con grande precisione e con malinconia struggente.

La direzione del cinese Muhai Tang, fortemente contestato dagli spettatori della Scala, è apparsa sciatta (tempi staccati male, attacchi sbagliati), monocorde (un eterno adagio) e noiosa, mancando l’obiettivo essenziale di far rivivere animandola una drammaturgia (in particolare quella dei primi due atti) ormai lontana dai gusti del pubblico.
L’allestimento, centrato sull’idea vista e stravista di trasporre l’azione ai tempi del compositore, è di una vuotezza imbarazzante, sia quanto alla regia che quanto alla scenografia, entrambe partorite dalla mente del tedesco Jürgen Flimm.