Troppo spesso oscurati dall’imperante moda degli “Impressionisti” francesi, dalle mostre – evento fino alle quotazioni vertiginose dei loro “pezzi”, i “Macchiaioli” italiani ed in particolare toscani stanno vivendo, pur trainati dai colleghi d’oltrealpe, una seconda “giovinezza” critica e di mercato. Gli studi su pittori come Fattori, Signorini, Lega e Martelli sono di vecchia data, dalla prima edizione 1953 della raccolta Einaudi delle loro lettere curata da un collezionista e fotografo come Lamberto Vitali o dai pionieristici lavori di Fortunato Bellonzi fino ai nuovi studi di Francesca Dini, passando per le monografie e le mostre curate da Dario Durbé e Raffaello Monti, di strada ne è stata percorsa e un indirizzo estremo di riferimento può essere il bel “lavoro” di Pier Francesco Listri: scrittore di “cose” toscane e fiorentine, già allievo di Giuseppe De Robertis, il più fine lettore di poesia del ‘900, che, per la casa editrice fiorentina Le Lettere, redasse qualche anno anno fa voci e lemmi dell’imponente ed esaustivo “Dizionario dei Macchiaioli. Pittura toscana dell’Ottocento dalla A alla Z”. Ma, ancor prima di questa letteratura critica, oggi ci si accorge di come una straordinaria consonanza e unità di intenti sembra accomunare nel nome dei “Macchiaioli” artisti puri come Fattori, artisti-critici come Cecioni e Signorini e collezionisti, provenienti non solo dalla Toscana, imprescindibile, con qualche raro distinguo, epicentro del fenomeno. Con quest’ultimi però proiettati o già appartenenti al ‘900 che fecero un culto di quelle opere, che non poco movimentarono e impressero un’indelebile iconografia all’Italia che spegneva i suoi legittimi ardori risorgimentali, per farsi unitaria. Pertanto, accanto allo studio si prospetta una storia segreta tutta da scoprire dell’arte italiana che è quella raccontata dalle collezioni private, se fossero tutti visibili e alle quali unire opere provenienti da luoghi e musei pubblici, alcune delle quali di fatto invisibili, per innalzare ancor più il livello narrativo. Tuttavia, scoperte le carte, tale sinergia appare come magnifica epifania nella mostra “L’Ottocento aperto al mondo. Il tempo di Signorini e De Nittis nelle collezioni Borgiotti e Piceni” (un progetto di Giuliano Matteucci, con catalogo a cura di Claudia Fulghieri e Camilla Testi), visitabile fino al 26 febbraio prossimo, al Centro Matteucci di Viareggio; questo luogo spalmato dannunziamente in una villa liberty a pochi metri dal lungomare eppur lontano dal consumo vacanziero, che merita molto più che un paio di righe d’elogio per la rigorosa, appassionata e a tutto tondo attività culturale e organizzativa. Infatti, in un periodo in cui la virulenza con cui l’industria dei “mostrifici” è sempre più spesso in agguato nel proporre prodotti usa e getta, peraltro sostenuti e mascherati da campagne marketing che con abilità celano il vuoto dei contenuti, le esposizioni del Centro Matteucci, consentono al visitatore di affrontare percorsi inediti di visione. In tale contesto l’intreccio delle collezioni di Enrico Piceni (1901-1986) e Mario Borgiotti (1906-1977), milanesi di nascita e d’adozione, essendo il secondo nato e cresciuto a Livorno, evidenziano gusti e seduzioni del loro tempo. Mentre Borgiotti, formatosi nel clima fiorentino delle Giubbe Rosse, si chiuse nella ricerca dei “suoi” macchiaioli (da Fattori ad Abbati); Piceni fu traduttore di Dickens e lavorò per Mondadori in due delle collane di punta della casa editrice La Medusa e i Gialli. E quasi a voler mostrare la propria versatilità e modernità che espresse ancor più compiutamente nella vocazione d’esportazione della sua collezione raccolse opere soprattutto di De Nittis, Zandomeneghi e Boldini, pittori che trovarono fortuna a Parigi. Ed allora ecco che, attraverso la lente d’ingrandimento dei due collezionisti, viene ad esaltarsi la narrazione per procura di alcuni dei più grandi artisti del XIX secolo: anticonformisti, sfaccendati giovanotti, affascinati dalla nuova pittura en plein air francese e allo stesso tempo dalla storia e dalla letteratura (soventi erano i soggetti storici e letterari), frequentatori di caffè e corrispondenti ai nomi già fatti di Fattori, Cabianca, D’Ancona, Lega, Abbati, e dopo di loro i citati “italiani di Parigi”, nessuno dei quali legati a comune provenienze regionali o locali, che presero a discutere d’arte e di come sganciarsi dall’Accademia e dalla prima critica che li bollò come “macchiaioli”. E dunque: da una sonora bocciatura nacque il più sperimentale dei movimenti artistici italiani della seconda metà dell’800 che insieme al melodramma e al romanzo d’appendice rivoluzionò modi, linguaggio e costumi nazionali.