Due sole lettere, Oy, per altrettanti personaggi in scena. Musica della crisi, forse, che però non si fa mancare nulla e poco o niente fa rimpiangere. Conta più il numero degli spettatori. Per il resto bastano lei e lui. Con un terzo ipotetico elemento, tutt’altro che trascurabile nell’economia del loro set, che è l’apparato visuale, in cui si rispecchia un linguaggio affine, la stessa frastornante vitalità che le canzoni trasmettono.

Ma soprattutto basta lei. Joy Frempong, una delle creature musicali più fresche e intriganti del momento. Tecnicamente si tratta di una musicista-cantante elvetico-ghanese afro-errante, con base-studio a Berlino, che dai suoi giri seriali in Mali, Burkina Faso, Ghana e Sudafrica ha tratto la linfa stessa della musica che le esce dalla testa. Ovvero un suono accogliente, informale, caldo, come solo certe case berlinesi riescono ad esserlo.

Durante i suoi viaggi ha ascoltato tante storie, soppesato saggezze, captato proverbi utili, incontrato – nel senso più proprio di andare incontro – un bel po’ di persone (irresistibile il gioco dei nomi che va in scena in My Name is Happy). E soprattutto raccolto – nel senso più proprio del raccolto – ore e ore di field recordings urbani. Registrazioni sul campo o dal campo, un gran vocìo condito dal ritmo di una vecchia lavatrice, una portiera di taxi, sventagliate di clacson e altri rumori di strada da collezione. “La vita è come il mercato – cinguetta Joy in Market Place –, ci vai, prendi quello che ti serve e te ne torni a casa”. Un po’ come le strade dell’Africa. Molto dipende anche da come riesci ad assemblare ed esaltare gli ingredienti che riporti indietro.

Una volta ritornata a casa, lei ha lasciato piovere con malcelata grazia tutto questo ben di dio nel tessuto elettronico, ai limiti del vintage, fatto di synth e sequencer, che compone l’ossatura della sua musica. Poi ha aggiunto i suoi cantati, sapori soul, istinto del cantastorie, senso del travestimento vocale e divertissment vari. Pura gioia. Dal vivo Joy è accerchiata da tre microfoni dai quali riceve un trattamento ogni volta diverso per la voce. E il campionatore canta con lei, riorganizzando in sezioni i discorsi e i suoni incidentali lasciati laggiù. Poi sì, c’è anche lui, Lleluja-Ha, il suo partner batterista-produttore, ed è davvero impossibile non accorgersene, vuoi per il drumming mediamente muscolare che aggiunge alla miscela, vuoi per il vistoso mascheramento che da solo vale lo spettacolo.

Da vedere per credere, potendo. Domani un concerto Oy chiude la sezione Afropolitan del RomaEuropa Festival (Pelanda, Macro Testaccio) , che si è aperto ieri con Baloji e prosegue questa sera con SwamiMillion Aka LV (Simon Williams e Will Horrocks) & Fawda Trio (Fabrizio Puglisi, Reda Zine, Danilo Minneo), un incontro tra elettronica, jazz e turbolenze gnawa sintetizzato nel progetto speciale Road to Essaouira.

Ma la musica di Oy non è niente male anche su disco. La Crammed, etichetta belga dal fiuto affilato, per cominciare ha ripreso l’album Kokokyinaka, uscito per una minuscola etichetta indipendente e circolato assai poco, lo ha rititolato No Problem Saloon e ora gli sta garantendo un po’ della visibilità che la scommessa Oy merita. Se son rose, se le meritano fiorite.