Lewis Baltz è morto a Parigi la sera del 22 novembre, a 69 anni. Sebbene in Italia fosse poco noto, Baltz aveva trovato casa, amici, era stato accolto, aveva lavorato, si era sposato, aveva divorziato, vissuto e insegnato per molti anni. Era in contatto, fin dagli anni Ottanta, con un gruppo di intellettuali e artisti per lo più vicini a Linea di Confine di Rubiera, e all’Università di Venezia dove, dagli anni Duemila, era stato insegnante. Nella sua opera lo sguardo è messo tra parentesi; se la fotografia riguarda le cose da vedere, allora dovremo ammettere la presenza di una difficoltà fondamentale, e persino di un’aporia: non succede niente, tutto è già avvenuto, l’inquinamento, la mafia, la politica, e noi possiamo vedere solo ciò che resta, il non-so-che e il quasi-niente, per dirla con Jankélévitch. «Mi sento come un uomo seduto accanto a un fiume che vende acqua (…). Uso una tecnica fotografica raffinata per presentare vedute di nulla».

Baltz, con le serie The Prototype Works (1967-’76), The Tract Houses (1969-’71) e The New Industrial Parks (1974) aveva ravvivato la fotografia di paesaggio americana, rilevando l’avanzata dello sviluppo industriale ed edilizio nei paesaggi aperti: parcheggi, parchi, uffici, porte di garage industriali alle spalle di capannoni anonimi, estratti dal caos e riconquistati alla bellezza della forma (del resto i capannoni asettici, nell’intenzione di chi li aveva costruiti, non dovevano sembrare ciò che erano). Baltz, dagli anni 70, ha «continuato a sviluppare un’importante riflessione teorica sulla fenomenologia del paesaggio americano», afferma Antonello Frongia nella postfazione agli Scritti, editi da Johan&Levi; è stato uno dei primi fotografi statunitensi a ottenere un riconoscimento ufficiale entrando a fare parte della famigerata mostra di Rochester, New Topographics: Photographs of a Man-Alterd Landscape, del 1975, e nei decenni successivi è diventato uno dei più autorevoli promotori di un riadattamento critico della fotografia americana di paesaggio, con immagini che alludevano e si ispiravano al Minimalismo, al Concettuale, e alla Land Art.

I lavori di Baltz degli anni 70 e 80 sfruttavano la capacità del mezzo nella descrizione degli ambienti sociali in rapido mutamento: Nevada (1978), Park City (1980), San Quentin Point (1982), Fos Secteur 80 (1987), Candlestick Point (1989) rappresentavano una sorta di (proto)terzo paesaggio, un territorio consegnato alla dimenticanza, al potere. Le immagini di San Quentin Point sono ispirate al film Dark Passage (La fuga, 1947) di Dalmer Daves; Bogart fugge dal carcere di San Quentin, non riusciamo mai a scorgere il suo vero volto, prima che si faccia operare per rendersi irriconoscibile, e cambiare identità: possiamo vedere solo gli spazi che attraversa. «Ho pensato mentre camminavo in quei luoghi ed ero di cattivo umore che avevo appena letto il libro di Jonathan Shell, Il destino della Terra, e non potevo fare altro che guardare il paesaggio come può vederlo un morto».

Questa morte che non si vede ed è ovunque, era quanto dell’opera di Baltz inquietava Luigi Ghirri. Baltz si era trasferito definitivamente in Europa per dedicarsi a progetti site specific e spesso gli erano state assegnate committenze pubbliche. «Era la fine degli anni di Reagan, i primi anni di Bush. L’America era cambiata in peggio. (…) Una voragine si era aperta tra i valori della borghesia e i valori dell’arte». L’arte era diventata qualcosa di diverso da ciò che è, da ciò che vale per se stessa, da ciò che era stata per Baltz, soprattutto nei sorgivi anni 60 e 70, trasformandosi in qualcosa di decorativo per le case negli Hamptons. Da questo momento in poi aveva lavorato con la fotografia a colori per rappresentare il nuovo ambiente high-tech dei laboratori di ricerca e delle industrie; così aveva potuto focalizzare l’attenzione su spazi apparentemente immacolati: 89-91 Sites of Technology. In un documentario del 1998, Baltz esordisce con: «Io non ho mai pensato a me stesso come a un fotografo».

Nell’ultima intervista, rilasciata la scorsa estate a Jeff Rian, diceva: «Una delle cose che si imparano quando si cerca di reinventare se stessi è che alla fine di ogni giornata sei ancora tu». E così lo avevamo ritrovato negli anni 90 ad affrontare il tema del potere, in termini sia positivi che negativi. Power Trilogy (1992-’95) è composto da tre parti: Ronde de nuit è dedicato alla società; Docile bodies affronta l’individuo e fotografa persone durante operazioni chirurgiche in alcuni ospedali europei; con The politics of bacteria, Baltz si occupa dell’invisibile. In queste opere è un selettore di immagini e un fotografo, un artista indispensabile alla creazione di una composizione complessa. Il suo interesse nasceva da ciò che stava succedendo dopo la caduta del Muro di Berlino. «I nazisti erano stati il male, ma non avevano avuto la tecnologia avanzata».

Baltz chiude gli Scritti con un testo dal titolo L’inferno in terra: rappresentazioni distopiche all’epoca del nulla di speciale: potremmo definirli utili consigli di lettura per un aspirante artista, o semplicemente per un essere umano consapevole.