Ma guarda dove si ritrovano Guizzardi il discolo, il ragazzo Garibaldi più discolo ancora e tutti quanti: loro che se ne andavano raminghi, un po’ Buster Keaton e un po’ Pinocchio, imprecatori e marionette e molto umani. Dice il dorso: Gianni Celati, Romanzi, cronache e racconti, Mondadori; dice il frontespizio: a cura di Marco Belpoliti e di Nunzia Palmieri (si aggiungerà che la puntuale bibliografia è di Anna Stefi); e il listino: pp. CXXVII-1854, euro 80,00. Con il «Meridiano»-Celati il movimento – si passi l’ovvietà linguistica degna d’un sociologo vintage – diventa istituzione. Si stabilizza in forma d’unico libro l’avventura di un picaro, va nei classici italiani una sommessa epopea padana di fine Novecento.
Scatenato prima, meditabondo poi, sempre sottraendosi un po’ e un po’ malinconioso (però non esente da allegrezze), Celati è lo scrittore che non ha voluto da un certo punto in poi far più romanzi (e nemmeno antiromanzi) e che ha messo l’avventura e il mito (anche mentale) della frontiera dentro i percorsi dei lettori. E al posto dei romanzi se ne è uscito con quell’altra cosa: le pianure, le apparenze, la foce. I lettori lo hanno seguito, da lì in poi divisi in tre torme: quelli del primo Celati, quelli del secondo Celati e quelli di Celati. Tutte e tre le torme adesso hanno di che eventualmente ridefinirsi. E le nuove, di torme, a questo «Meridiano» accosteranno almeno i due volumi saggistici di Celati, dal momento che nella sua figura di scrittore, come nel jazz, il dialogo tra front line e sezione ritmica è tutto: poi i dizionari del jazz dicono che second line a New Orleans era il corteo che ballava attorno all’orchestra. Comunque, i due volumi sono Finzioni occidentali e Conversazioni del vento volatore. Il tratto euforico di scoperta e avventura – intellettuale e fisica – delle Finzioni accompagna tutto lo scrivere di Comiche e Parlamenti buffi (che sarebbero, ritoccati, Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri e Lunario del paradiso); e il Vento volatore («quella spinta atmosferica che investe le parole sparpagliandole in argomenti vari») è intimo di quello che viene dopo, da Narratori delle pianure a seguire. Da una parte, allora, «la gioia della confusione irrimediabile» come Celati stesso dirà a proposito di Comiche; oppure, come dirà invece per Guizzardi, «scrivere con nell’orecchio un tipo di musica come quella delle nenie, più affidata al ritmo e meno all’armonia». Poi lo sguardo – con la rarefazione e la condensazione, insieme, dello scrivere – verso altre avventure che, per quanto con paesaggi e movimenti e tutto, vanno verso l’interno, un’esplorazione del sé attraverso le apparenze del fuori: «Poiché noi siamo come tronchi d’albero nella neve. Apparentemente vi aderiscono sopra, ben lisci, e con una scossa si dovrebbe spingerli da parte. No, non si può, perché sono legati saldamente al suolo. Però guarda, anche questa è soltanto un’apparenza»: è l’esergo da Kafka per Quattro novelle sulle apparenze.
Le apparenze sono anche nel fatto che Celati è letterato sempre, e talvolta non lo dà a vedere, così che in lui si trovano intarsi occultati che diventano sua scrittura, roba sua, come nella mirabile chiusa di Verso la foce, che comincia «Ci hanno mescolato le anime e ormai abbiamo tutti gli stessi pensieri» e finisce così: «Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo». Celati in massimo grado, giacché nulla cambia, se non la soddisfazione erudita, il piacere dell’agnizione di lettura, a metterci dietro: «Camminavo, camminavo nell’amorfismo della gente. Ogni tanto rivedevo il suo sguardo strabico fisso sul fenomeno, sulla parte immota che sembrava attrarlo irresistibilmente: vedevo la mano irritata che toccava la parte immota. Ogni fenomeno è per sé sereno», che è L’incontro di Regolo – che titolo celatiano, e che diapason celatiano il tono-tema del brano – nei Canti orfici di Dino Campana.
Poi c’è la questione di Angelica che fugge (figura del differire, che è una caratteristica dello stare, anzi del passare sulla terra), dei romanzi da leggere ad alta voce e anche da riscrivere in prosa, come l’Orlando, sia esso furioso o innamorato: per dire qui, con scorciatoia, che Celati lo si trova pieno anche nelle curatele, nei maneggiamenti o nelle traduzioni di pagine e libri d’altri, negli oggetti «d’affezione»: in Céline e Twain, London e Melville e Conrad, Hölderlin e Joyce, oppure nelle Storie di solitari americani, e in piccoli ma intensi miti della lingua nostra, D’Arzo e Delfini: perché da scrittore si è mostrato in molti modi, ma ogni volta ha ben marcato la propria fisionomia d’autore come un’unica fisionomia, solitaria e avventurosa. Solitario per sottrazione al mondo, avventuroso per l’esplorazione di qualche nuovo sentiero, anche andando a spasso nel tempo come indica – Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, Sonetti del Badalucco nell’Italia odierna ecc. – la non occasionale predilezione per titoli antichizzati, da parere quelli di cronisti o novellieri del passato, come se in quell’artificio ingenuo come è ingenuo il ragazzo Garibaldi nella Banda dei sospiri (per niente ingenuo, e che fa il presentat-arm al poeta Giosue Carducci calandosi le brache), come se in quel modo potesse riaffiorarne qualche verità, qualche autenticità. E così in cronache e novelle ecco Pucci, Zoffi e Muccinelli, dai cognomi famigliari come e più di eventuali nomi, perché alludono a dinastie a dir poco non regali, a tratti psichici e fisici come una mattità serena una zoppia un naso troppo grande o un mento storto; e grazie a queste caratteristiche diventano tutti noi.
Che cosa ha in comune l’autore di Comiche e delle Avventure di Guizzardi con l’autore delle Vite di pascolanti? Siccome le informatissime notizie sui testi della Palmieri mostrano il divenire dello scrivere di Celati nelle sue varie fasi, anche col confronto tra scelte varianti, e ciò vuol dire che nel corso del tempo Celati qualcosa ha cambiato; siccome la cronologia questo divenire lo fa vedere (fosse stato per lui, Celati avrebbe scritto solo, come ha scritto talvolta: «Passa il tempo – Succedono delle cose»); e siccome nella sua ottima introduzione Belpoliti ha ragione quando osserva dell’intreccio tra l’anche dotto e sempre acuto saggista e il romanziere o narratore che tutto sembra lasciar da parte per andare al nocciolo delle cose trovando che qui si può solo descrivere e dire: così è; siccome le cose stanno così, quale sarà mai allora questa inconfondibilità di Celati, che infatti esiste, proprio abbastanza inconfondibile? Liberarsi della letteratura attraverso la letteratura, in un tentativo degno del famoso barone che presumeva salvarsi dall’annegamento tirandosi per i capelli, come scrive Belpoliti? Celati va a vedere le carte, va a scrivere per vedere che cos’è e come va la vita, che cosa c’è al fondo dell’insensatezza. Lo sguardo va in trasferta, ma la vita è come la provincia dove si è nati: un vicolo-incrocio di storie inconcluse, portate non si sa mai fino a quando ma sempre con noi: cose che ci si racconta mille volte per provare a cavarne il midollo che tutti ci accomuna in paese in città e nel mondo. Sarebbe non male trovare una formula che tutto ciò sapesse definire in breve: dovrebbe essere mobile e in fuga da se stessa. Per esempio: l’opera di Celati cerca la vita ma sa che il vivere può rappresentarsi solo in forma di commiato, che si vive accomiatandosi dalla vita e altro non si può fare. Ecco, forse è così, e ci riguarda.