Nel giorno del riconoscimento del Genocidio armeno da parte del Parlamento tedesco (2 giugno), abbiamo messo insieme alcuni frammenti dai nostri diari di ricerca sulla cultura di un popolo sempre in fuga, lo stesso che ha subìto quel genocidio. Si tratta di manoscritti, lettere, miniature, rotoli.

Erodoto. Storie, 1.– ca. 538 avanti Cristo

194 – La più grande di tutte le meraviglie che esistono colà, a mio parere, dopo la città in se stessa, è quella che mi accingo a narrare. Le loro imbarcazioni, con le quali seguendo il corso del fiume arrivano a Babilonia, sono di forma rotonda e tutte di pelle.
Infatti, quando in Armenia, che è sopra la Siria, con delle tavole di salice ne hanno costruito lo scafo, vi stendono sopra una coperta di pelli all’esterno, come si fa con i pavimenti, senza segnare la poppa con un allargamento o la prora con un restringimento; ma, facendolo rotondo come uno scudo, lo colmano tutto di paglia e lo lasciano andare secondo corrente, dopo averlo riempito di mercanzie. Per lo più trasportano così recipienti di vino di Fenicia.
Il battello è governato per mezzo di due pali da due uomini che stanno ritti in piedi: quando uno tira a sé il palo, l’altro lo spinge in fuori.
Se ne costruiscono di veramente grandi e anche di minore portata: i più robusti reggono un carico anche di 5000 talenti,
In ciascun battello si imbarca un asino vivo, in quelli più grandi un numero maggiore. Quando, dunque, seguendo la corrente, siano giunti a Babilonia e abbiano venduto la loro mercanzia, vendono all’asta le fiancate e tutta la paglia, ma le pelli le caricano in groppa agli asini e se ne tornano in Armenia.
Infatti non potrebbero essi, in alcun modo, risalire il fiume, data la rapidità della corrente; ed è per questo, anche, che si fanno le imbarcazioni non di legno, ma di pelle. Quando poi, spingendosi innanzi gli asini, siano ritornati in Armenia, con lo stesso modo si procurano altri battelli di tal fatta, sono le loro imbarcazioni.
195 – E questi sono i vestiti che essi usano: una tunica di lino lunga fino ai piedi sulla quale indossano un’altra tunica di lana, e si avvolgono in un piccolo mantello bianco. Le loro calzature sono di tipo paesano, molto simili a sandali beoti (scarpe di lino, di color rosso, che lasciavano scoperta gran parte del piede). Portano capelli lunghi, si cingono la testa con una benda, e si cospargono di unguenti tutto il corpo. Ciascuno porta un anello con un sigillo e un bastone lavorato a mano: su ogni bastone v’è incisa una mela, o una rosa, o un giglio, o un’aquila o qualche altro oggetto. Non usano, infatti, portare un bastone che non abbia un distintivo. Questo è il loro modo di abbigliare il corpo.

il figlio del re d'armenia (1)

Dal nostro diario di viaggio

Il 3 aprile 2007 siamo a Gerusalemme. Invitati dal patriarcato degli armeni. Il quartiere armeno sorge nel luogo della 10° Legione Romana. Siamo nel cuore dell’inarrestabile decadenza e graduale scomparsa dei Cristiani d’Oriente dovute alle tensioni e alla guerra. Al patriarcato, la situazione è drammatica, sono arrivate molte famiglie di armeni iracheni fuggiti dalla guerra. Hanno lasciato la casa, gli affetti, le amicizie, ottime posizioni economiche ed ora non hanno più nulla e devono essere aiutati.
Avevamo chiesto di poter passare la Pasqua del 2007 per filmare i rituali, assieme alle cerimonie religiose degli altri Cristiani d’Oriente. Oltre agli armeni, abbiamo registrato i riti, le liturgie dei greci, degli etiopi, dei latini, dei siriaci, dei copti.
5 aprile. Forte impatto e fisicità del viaggio a Gerusalemme per fissare il «teatro delle cerimonie» dei cristiani d’Oriente e la loro drammaticità. Alla messa pasquale alla cattedrale armena di Saint James, l’abate lava i piedi agli altri monaci officianti e li cosparge di unguento. Con un rituale antico e complesso. Canti profondi accompagnano la cerimonia. Sembra Il sogno di Costantino di Piero della Francesca che improvvisamente si anima, prende vita: colore, aurea, atmosfera. Siamo nell’antico.
8 aprile. Incontriamo il filologo armeno G. H., ci mostra le immagini delle rovine delle chiese armene e dei monasteri in Turchia. Dice: «Ogni anno che passa altre chiese scompaiono. Presto non vi sarà nemmeno alcuna evidenza anche virtuale che gli Armeni siano mai esistiti in Turchia. Diventeranno un mito storico».

Trascriviamo qui da un quaderno del 1989 la fiaba che Raphael Gianikian, padre di Yervant, aveva tradotto dall’armeno medievale: Il figlio del re d’armenia, un racconto zeppo di parole armene, curde.

Il figlio del re d’Armenia

C’era una volta un re d’Armenia che aveva un figlio, il quale non voleva studiare, non voleva far niente, non voleva imparare nessun mestiere. La sua passione era questa: la mattina si alzava, prendeva l’arco, andava nel bosco, cacciava pernici e fagiani. Era la sua vita di tutti i giorni. Il padre era triste perché suo figlio non voleva diventare un uomo, figlio di re. Chiamò il figliolo: «Figliolo, siccome tu non vuoi far niente, ti mando fuori dalla mia casa, così guadagnerai il pane. Ecco, ti do un arco molto potente, qualcosa per mangiare, vestire e denaro, e ti procurerai da vivere». Il ragazzo baciò la mano del re e partì.
Cammina cammina, arrivò in un bosco e pensò: «Questo bosco mi piace molto e credo vi sia molta selvaggina. Vi farò la mia casa». In un anno fabbricò una casa con una grande cantina. Tutti i giorni andava a caccia. Portava caprioli, e altre bestie per mangiare la carne. Quello che restava lo insalava e lo metteva in cantina, appeso al soffitto. Passarono diversi anni. Un giorno nel bosco arrivò la siccità. Migliaia di cavallette invasero i campi, distrussero il grano, non restò più niente. La gente era affamata. Il padre mangiava il figlio, il figlio il fratello. Ognuno cercava di saziarsi in qualche modo. Un giorno una volpe che girava nel bosco, vide una casa e pensa: «Qui ci sarà da mangiare». Fiutò nell’aria l’odore di carne. Girò attorno alla casa e vide una fessura, da questa entrò nella cantina del cacciatore, vide tante cose appese. Cominciò a mangiare e lo fa a sazietà.

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Nel momento in cui stava per uscire dalla fessura, il cacciatore entrò nella cantina. Vide una volpe, preparò l’arco per ucciderla. La volpe, però, corse ai suoi piedi. «Ti prego, non uccidermi, non sai che il mondo è affamato, io ho girato ovunque, sono entrata nel bosco, ho sentito l’odore della tua casa, lasciami andare, posso esserti utile, farò la guardia alla tua dimora». Il figlio del re accettò: «Va bene, se dici che nel mio bosco non ci saranno più ladri, potrai stare, ti darò tutti i giorni carne a sazietà». La volpe fortunata mangiava carne e si metteva al sole a dormire, tutto il giorno. Un giorno d’estate, la volpe era distesa davanti all’uscio della casa del cacciatore e prendeva il sole beata e felice. Da lontano un lupo vide la volpe e pensò: «Il mondo è affamato, questa volpe felice, con la pancia piena dorme davanti a questa casa, ne farò un boccone, la mangerò d’un fiato». Si avvicinò: «Volpe, ti voglio mangiare viva». La volpe rispose: «Perché mi devi mangiare, fratello lupo? Ti porterò in un posto dove potrai mangiare un intero cervo». Lo accompagnò nella cantina del figlio del re. Il lupo affamato, cominciò ad inghiottire intere porzioni di carne saporita. Al momento di uscire, la porta della cantina improvvisamente si aprì. Il cacciatore vide il lupo nella sua cantina e preparò l’arco per ucciderlo. Intervenne la volpe: «Figlio del re, per carità, lascia il lupo, anche lui può essere utile per la tua casa, in due faremo buona guardia perché nessun rapinatore assalirà la tua casa, tu vivrai in pace». Il cacciatore: «Teniamo anche il lupo a casa nostra, gli darò da mangiare tutti i giorni e anche lui farà da guardia».

Passarono i giorni, il lupo e la volpe, come due fratelli vissero insieme, mangiavano insieme e andavano al sole davanti alla casa per digerire tutto quello che avevano mangiato. Una mattina, improvvisamente arrivò un orso con questo pensiero: «Me li mangerò in un boccone tutti e due. Sono settimane che non mangio. «Fermatevi là, sono affamato, vi mangerò». Intervenne la volpe: «Perché vuoi mangiarci orso? Anche per te c’è carne in abbondanza, ti porterò nella cantina del cacciatore e potrai mangiare un intero cervo». L’orso accettò volentieri la proposta della volpe che l’accompagnò in cantina. Mentre mangiava un cervo, improvvisamente il ccciatore aprì la porta della cantina e vide davanti a sé un grosso orso. La volpe non lo lasciò fare e disse: «Figlio di re, che tu abbia lunga vita, lascia vivere anche l’orso, può esserti molto utile. Noi tre faremo guardia alla tua proprietà». «Volpe, se lo dici tu – disse il cacciatore – teniamo anche l’orso. In tre farete meglio la guardia contro i ladri». Così la volpe, il lupo e l’orso, tutti i giorni mangiavano a sazietà e andavano davanti alla casa a prendere il sole. Le tre bestie un giorno prendevano il sole, quando il re del cielo, l’avvoltoio, li vide sazi e pensò: «Il mondo muore di fame e questi sono con le pance piene». Precipitò giù per rapirli e portarli su nel suo nido. Intervenne la volpe: «Re del cielo, se ci lasci in vita, tutti i giorni tu potrai mangiare la carne che vuoi, di cervo, di lepre, di capriolo…». Il re del cielo consentì.

La volpe accompagnò il re del cielo nella cantina del cacciatore. L’avvoltoio finì di divorare le carni delle bestie uccise. Al momento di volar via sentì aprire la porta della cantina. Il cacciatore vide l’avvoltoio, preparò l’arco per colpire alla testa l’avvoltoio. Anche questa volta la volpe intervenne: «Il re del cielo ci sarà molto utile, teniamolo nella nostra compagnia, per difendere dal cielo la tua proprietà». La volpe, il lupo, l’orso, l’avvoltoio per otto anni vissero con il cacciatore. Quando finì la carestia del mondo, pensarono: «Lasciamo la casa del figlio del re che abbiamo avuto la fortuna di godere». La volpe disse: «Per tanti anni abbiamo vissuto con questo cacciatore che ci ha salvati dalla morte. Dobbiamo fare qualcosa per lui. Andiamo a procurare una donna per suo figlio. Io so che a Trabisonda c’è un re che ha una bellissima figlia, andiamo a rapirla …». Si misero d’accordo e decisero di partire per Trabisonda. Giunti al palazzo reale, videro le terre dove lavoravano gli agricoltori. La volpe, il lupo, l’orso e l’avvoltoio si nascosero dietro una siepe, aspettarono che gli agricoltori finissero il lavoro. A mezzogiorno in punto i contadini andarono sotto un albero a mangiare. Liberarono i buoi dal giogo dell’aratro

In quel momento la volpe legò l’orso a un giogo, il lupo all’altro, lei prese l’aratro e incominciarono ad arare. La volpe faceva il verso dei contadini: fischiava e gridava agli animali. I contadini, quando videro questa scena e bestie feroci che aravano la terra, corsero dal re e raccontarono ciò che avevano visto. La regina, il re e la figlia andarono sul balcone a vedere e ad ascoltare ciò che dicevano i contadini. In quel momento volava sul palazzo l’avvoltoio. Distese le sue ali giganti, improvvisamente virò, prese sulla sua schiena la figlia del re e volò via. Quando la volpe, il lupo, l’orso videro la scena lasciarono l’aratro e tornarono alla casa del cacciatore. «Figlio di re, ti abbiamo portato la sposa!». Il figlio del re chiese come avevano fatto. «Siamo andati a Trabisonda – spiegò la volpe – abbiamo preso la figlia del re e te l’abbiamo portata». «Ora non posso sposarmi – rispose il figlio del re – perché ci vuole un prete, la nostra usanza vuole che ci sia». «Se la cosa è così andiamo a prendere un prete», disse la volpe.

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I quattro andarono in un villaggio, presero un prete e lo portarono a casa del cacciatore. Il prete celebrò il matrimonio e a piedi se ne tornò a casa. Il re di Trabisonda venne a sapere che sua figlia era stata rapita da un caccciatore che viveva in un bosco. Raccolse il suo esercito, marciò contro il figlio del re. Quando questi vide l’esercito del re di Trabisonda prese paura, non sapeva dove nascondersi. Intervenne la volpe: «Tu fai la tua bella vita, ci penseremo noi a cacciare l’esercito del re. Tu, figlio di re, non devi partecipare alla guerra». Da una parte l’orso, dall’altra la volpe e il lupo e l’avvoltoio cominciarono la guerra. Distrussero tanti soldati, e ricacciarono il nemico fino alle porte di Trabisonda. Il re spaventato mandò un messaggero: «Cacciatore, puoi tenere mia figlia come legittima sposa, finiamo la guerra, viviamo in pace». Così l’avvoltoio, la volpe, il lupo, l’orso salutarono il figlio del re. «Siamo venuti a chiedere il permesso di andar via dalla tua casa. Adesso non c’è più carestia nel mondo». Il figlio del re li ringraziò e li lasciò andare. Per alcuni anni, il figlio del re e la sua sposa vissero nella casa ma si accorsero che la vita era molto triste e decisero di andare nel palazzo del padre di lei a Trabisonda, che ne fu molto contento. Vissero insieme felici per molti anni.