È un incontro ravvicinato tra Palazzo e Popolo quello che viene a galla attraverso le vicende in cui sono coinvolti, a diverso titolo e a parti rovesciate, i ministri Alfano e Kyenge. Purtroppo, in tutti e due i casi, a emergere è la fotografia dell’eterna Italietta, prona agli interessi, potenti, di satrapie post ’89, e sempre pronta a rigurgitare la sottocultura di un celodurismo razzista.
Lo scontro politico sollevato dal caso Alfano scoperchia lotte di potere combattute all’ombra dell’affaire kazako, mobilita correnti sotterranee delle larghe intese, alimenta scontri congressuali, provoca scossoni negli apparati di sicurezza. Un braccio di ferro politico-istituzionale che strumentalizza la sostanza (la consegna di una donna e una bambina nelle mani di un regime che non tollera nemici interni) e rende manifesta l’opacità delle istituzioni democratiche. Con un governo sempre più fragile, appeso alla richiesta di dimissioni del ministro dell’Interno, da contrattare in cambio della continuità governativa. Tanto quanto è palmare l’indifferenza all’offesa recata ai diritti umani con questa sorta di rendition in salsa kazaka.
L’altra vicenda, invece, l’insulto razzista di un vicepresidente del senato nei confronti di una ministra della Repubblica, non mette in crisi nessuno, non minaccia la stabilità dell’esecutivo e sarà presto solo una perla in più nella collana della vergogna nazionale. Ma è anche per questo che vale, invece, la pena di prenderla sul serio. Specialmente quando un quotidiano come il Corriere della Sera pubblica un editoriale dal titolo «Terzomondismo in salsa italica», firmato dal professor Giovanni Sartori.
Se l’ex capo della Lega, Bossi, dice che la ministra Kyenge «è stata scelta perché nera, tirata fuori dal nulla», Sartori chiosa chiedendosi «a chi deve la sua immeritata posizione». Dimenticando che a parlare è la biografia stessa della ministra, costretta dalle condizioni del suo paese a emigrare per approfondire gli studi di medicina, dunque molto esperta dei problemi vissuti dagli stranieri in Italia, lei che l’ha scelta come seconda patria da trent’anni, lei che da dieci si occupa di politica. Sartori in pratica vuole sapere da chi è raccomandata e, per restare in argomento, aggiunge a quello di Kyenge anche il nome di Boldrini, «presidente della Camera dalle credenziali davvero irrisorie».
La misogenia esagerata del professore si sposa perfettamente con il ragionamento (si fa per dire) secondo il quale una politica di orgine congolese non ha titoli per occuparsi di immigrazione così come una figura di livello istituzional-internazionale non avrebbe la caratura per ricoprire la terza carica dello Stato. È la riprova, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’emergenza culturale, prima che politica, che ormai sale dal populismo fino alle colonne della grande stampa.