Torna il Premio Europa per il teatro: si potrebbe dire «rinasce» perché dopo una lunga assenza di cinque anni (ultima edizione nel 2011 a Pietroburgo) torna ad affacciarsi con i suoi riconoscimenti ai «mostri sacri» e le proposte di nuovi artisti pronti a esser lanciati sulla scena continentale, tutto selezionato dai maggiori critici europei. Certo anche il concetto di Europa cambia rapidamente, tra muri divisori in costruzione e disparità economiche e finanziarie spaventose: quando la manifestazione nacque, circa un quarto di secolo fa, c’erano molte speranze, parte delle quali si sono poi rivelate illusorie, come dimostrano ogni giorno di più gli avvenimenti e le decisioni dei governi. Ma del resto è giusto che anche il teatro ci racconti quanto sta accadendo, come è da sempre sua missione istitutiva.

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E la prima curiosità, quasi abbacinante, è data dal fatto stesso che questa nuova edizione avvenga proprio a Craiova, città media (circa 250 mila abitanti) nella Romania occidentale, più vicina a Sofia e a Belgrado che non a Bucarest. C’è una grande università, molto frequentata, che le garantisce tutta la curiosità e l’energia di nuove generazioni. E le «impone», in qualche misura, investimenti culturali cospicui, come il festival shakespeariano di livello significativo, che quest’anno ha celebrato al meglio il quarto centenario della morte del Bardo.
Un festival che è stato inaugurato da Yukio Ninagawa con Riccardo II, e chiuso da Tomas Ostermeier con Riccardo III. Di Ninagawa si ricorda in Italia solo una presenza a una lontana Biennale veneziana, mentre a Londra è di casa alla Royal Shakespeare Company, dove presenta abitualmente i testi sacri di quell’autore, che realizza su scenari e stilemi giapponesi nel suo teatro, una copia fedele del Globe elisabettiano sbocciato in mezzo a un parco lussureggiante in una zona centrale di Tokio. Con qualche effetto depressivo sullo spettatore italiano condannato ai festival italiani limitati all’usato sicuro…
Infatti si conosce bene e si apprezza da noi il lavoro di Ostermeier alla Schaubühne berlinese, e non mancherà di aver successo anche questo suo Riccardo III, imponente e tenebroso, con gobba posticcia e una irrefrenabile agilità, che brandisce il microfono come una rock star, che il regista tedesco ha creato l’anno scorso per Avignone, dopo un Amleto, e prima di accingersi a realizzare tutto il ciclo shakespeariano che fa riferimento alla guerra delle due rose. Anche questo Riccardo, come diversi suoi Ibsen, il regista lo fa iniziare con un elegante party alcolico e borghese, che si scioglie dietro all’avvitarsi ineluttabile del protagonista dentro il potere, e in mezzo al sangue che ne costituisce il prezzo obbligato.

Spettacolo solido, di alta scuola attoriale e di robusto pensiero politico, che corre per due ore abbondanti senza intervallo in una indagine senza pietà.Proprio questo Riccardo di Ostermeier, assieme ai frammenti laringoscopici dal Giulio Cesare di Romeo Castellucci, hanno costituito il passaggio dal Festival Shakespeariano al Premio Europa, dove entrambi gli artisti erano stati premiati in passato.

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E la città, che aspira a buon diritto a esser scelta come capitale europea della cultura, è stata pronta a tuffarsi nella manifestazione ospite, che altre città e realtà (se uno pensa al «miliardo per la cultura» che come il signor Bonaventura promette ciclicamente Renzi) non si sono sentite di ospitare a nessun budget. Qui la premiazione è andata addirittura in diretta tv, forse meglio degli ippopotamini in tutù, sotto le stelle di Milli Carlucci.

Perché oltre alla curiosità di conoscere realtà teatrali diverse ed esterne rispetto ai propri confini culturali, il pubblico che ha affollato gli spettacoli e perfino i densi briefing con gli artisti, ha avuto modo di ascoltare da costoro racconti interessanti e rivelatori, testimonianze su stati di fatto che travalicano le singole biografie di ciascuno. Come l’ungherese Viktor Bodò, che ha dovuto sciogliere la sua compagnia di giovani Sputnik, dopo essersi formato al glorioso Katona Joszef di Budapest con Tamas Ascher e Gabor Zambeki: persone e luoghi di grandissimo prestigio internazionale, ma ormai progressivamente cancellate nell’Ungheria di Orban. Il suo ringraziamento per il premio è stato una impietosa ricognizione sul nulla che ora li circonda.

Diverso solo in parte il sentimento di Andreas Kriegenburg, nato all’Est quando la Germania era divisa, e trova naturalmente buone occasioni di lavorare nel suo paese riunificato. Ma non a caso ha voluto portare a Craiova quel Nathan il saggio di Lessing, manifesto di ogni pacifica convivenza tra diversi. Ma le sue creature non sfoggiavano crinoline o jabot, ma la nudità fangosa, quasi primordiale, di quelle che Maguy Marin usò tanti anni fa per scoprirci un mondo fatto di vecchiaia, povertà e grandi desideri frustrati.

Il giovane Teatro nazionale di Scozia dal canto suo, con gli spettacoli portati nei luoghi meno teatrali, scopre della scena il lato «educativo», se non addirittura agit prop. Al di là di referendum e desiderio di indipendenza, la sua scelta di semplicità e di pedagogia, fino a un concerto parlato che il pubblico ascolta in cuffia, marca una distanza notevole dal modello Uk. Senza rinunciare agli strumenti del teatro, ma abolendone volontariamente i lati seduttivi o di facile incantamento.

Non si fa incantare neppure Joël Pommerat, poco noto da noi ma amatissimo in Francia, dove il tarlo mai domato della conoscenza lo induce a smontare e decostruire i miti primari dell’infanzia collettiva, le favole. Cappuccetto Rosso, Pinocchio, Cenerentola (giusto un anno fa al Piccolo milanese) divengono meccanismi da sparigliare con le categorie della modernità, rispettandone il percorso ma moltiplicandone evocazioni e implicazioni.

Forse, almeno per noi italiani, ha sorpreso meno il premiato più conosciuto, lo spagnolo Juan Mayorga, di cui sono apprezzati e messi in scena i testi. Quelli che ha presentato e realizzato lui stesso, Reikiavik e Jugoslavi, sono apparsi quasi «schematici», dove una partita a scacchi (quella storica tra Fischer e Spasski) vorrebbe racchiudere tutte le contraddizioni del mondo.

Assente poco generoso il genius loci teatrale di tutta la Romania,Silvio Purcarete, il grande premiato europeo di quest’anno è stato Mats Ek, regista e coreografo svedese, barricato dietro pudore e riserbo, per potersi occupare soprattutto del linguaggio dei corpi, al di là di avvenenza o glamour, età o esibizionismo. Corpi reali, di donne e di uomini, pronti a far cogliere le più intime sensazioni, a cominciare dalla sua musa, la moglie danzatrice Ana Laguna.

Offrendo molti spunti di pensiero allo spettatore, per la sua dimestichezza con la grande scuola scandinava, che comprende Ibsen come Bergman. E naturalmente Shakespeare: si vide a Roma qualche anno fa un suo Mercante di Venezia, impersonato però da una donna, presenza sulfurea e inquietante quasi più che il mercante ebreo originario…