Dalla fine degli anni ’70 – quando venne scoperto da una missione archeologica polacca in una fondazione del tempio di Allat a Palmira – un maestoso leone in pietra era stato posto simbolicamente a guardia del museo della moderna Tadmor, a qualche chilometro dal sito archeologico che l’Isis tiene in ostaggio dallo scorso 21 maggio. Secondo informazioni ufficiose divulgate dalla popolazione locale, la statua – risalente alla prima metà del I secolo d.C. – sarebbe stata demolita sabato 27 giugno dai jihadisti dello Stato Islamico.

Benché, contrariamente all’ormai noto Isis-style, non siano state diffuse immagini della presunta distruzione, due giorni fa Maamoun Abdelkarim – direttore generale del Dipartimento dei musei e delle antichità della Siria – ha dichiarato alla stampa che si tratta del «più grave crimine commesso finora dai jihadisti contro il patrimonio di Palmira». Lo stesso Abdelkarim riferisce che l’imponente scultura – alta 3,5 metri e il cui peso corrisponde a circa quindici tonnellate – era stata protetta con una lastra di ferro e sacchi di sabbia. Un’azione preventiva volta a scongiurare la caduta delle bombe del regime di Bashar al-Assad, che nel 2013 causarono già gravi danni al tempio di Bel.
Sempre il 2 luglio, sono circolate in rete le foto di alcuni bassorilievi funerari intercettati a un check point dello Stato Islamico nella provincia di Aleppo. Un comunicato a firma di Daesh riporta che il trafficante sarebbe stato condotto presso il tribunale islamico della città di Manbij (a est di Aleppo) e le statue ridotte in pezzi per mezzo di possenti martelli. In effetti, alcune delle immagini mostrano una vera e propria «esecuzione» pubblica delle sculture, con i feroci metodi già praticati dall’Isis in Iraq, al Museo di Mosul, nell’antica città assira di Nimrud e ad Hatra, lo splendente centro religioso dell’impero dei Parti.

La studiosa francese Annie-Sartre Fauriat – consulente Unesco per il patrimonio siriano – ha confermato al telefono che, a una prima analisi del materiale fotografico, i rilievi possono essere attribuiti alla decorazione delle necropoli di Palmira. Gli scatti dei defunti che appaiono intatti sono stati tuttavia eseguiti in precedenza al Museo di Tadmor e non è possibile sapere, al momento, se corrispondano ai reperti colpiti il 2 luglio. «La distruzione è peggio del saccheggio perché è irrecuperabile», commenta ancora Maamoun Abdelkarim.

Se quest’ennesimo atto iconoclastico dell’Isis fosse confermato, ci troveremmo di fronte a un’ulteriore guerra, quella fra bande di trafficanti. Da una parte, i vandali al soldo del regime di Assad, che dall’inizio del conflitto devastano e saccheggiano i siti archeologici per immettere oggetti di valore inestimabile nel mercato internazionale; dall’altra, l’organizzazione criminale dello Stato Islamico, che vende a caro prezzo licenze illegali di scavo a tombaroli di ogni rango e nazionalità.

A noi, nel rievocare il leone nella sua posa ieratica e in quell’espressione eterna e universale che ricorda persino i Buddha di Bamiyan, toccherà versare lacrime sempre più rassegnate e amare. E scorgendone fra le zampe una raffinata antilope, penseremo a quella prescrizione inscritta nel monumento che raccomandava di non versare sangue nel recinto sacro ad Allat, la dea guerriera assimilata ad Atena. Un precetto menzionato anche da Luciano di Samosata e che oggi, davanti alle barbarie dello Stato Islamico su uomini e monumenti, riecheggia senza più potere nell’empietà del sacrilegio e nel lutto dell’umanità intera.