La Direzione Generale delle Antichità e dei Musei siriani (Dgam) ha reso noto ieri che lo Stato Islamico ha reiterato la sua violenza su due fra le strutture architettoniche più significative di Palmira, in precedenza risparmiate dai jihadisti.

Nei dieci mesi di occupazione della Città Carovaniera – presa in ostaggio nel maggio 2015 per motivi strategici in quanto situata sulla strada che collega Deir el-Zor a Homs ma anche perché fiore all’occhiello del turismo in Siria – i miliziani di Daesh si erano infatti esibiti in una serie di spettacolari distruzioni, precedute dal macabro assassinio dell’archeologo Khaled al-As’ad, responsabile del sito dal 1963 al 2002.

Il primo monumento a saltare era stato nell’agosto 2015, il tempio di Baalshamin, signore della folgore e della tempesta. Successivamente, l’esplosivo aveva ridotto in pezzi il sontuoso tempio di Bel, santuario del dio principale dell’Oasi.

La furia iconoclasta si era poi allargata ai morti, abbattendo in settembre le tombe a torre che sovrastavano la valle di Belqis. Infine, ottobre dello stesso anno, anche l’arco di trionfo cede sotto i colpi degli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi.

Le immagini satellitari – elaborate dall’American Schools of Oriental Research – Cultural Heritage Initiatives (Asor – Chi) mostrano invece, seppur con approssimazione, i gravi danni arrecati di recente al tetrapilo e al teatro romano.

Dopo la riconquista della Sposa del deserto da parte dell’Isis avvenuta tra il 10 e il 12 dicembre scorsi e l’omertoso silenzio sulla prevedibile sorte del sito Unesco, Palmira svela ancora una volta il suo ruolo di pedina nello scacchiere di guerra.

D’altronde, sin dalla «liberazione» del marzo 2016 targata Assad-Putin, l’attenzione della comunità internazionale si era colpevolmente spostata dalla salvaguardia di una città che non ha mai smesso di essere in pericolo alle future ricostruzioni. Come se il conflitto si fosse placato e gli archeologi fossero impazienti di rilanciare le loro missioni di ricerca, ignorando le migliaia di vittime mietute nel frattempo dalla guerra.

In attesa di poter valutare la portata delle nuove distruzioni – nel caso dei templi di Baalshamin e di Bel, lo Stato Islamico aveva diffuso video e foto delle macerie – colpisce la scelta degli obiettivi. A essere oltraggiati sono due edifici pubblici di età romana che niente hanno a che vedere con il simbolismo religioso.

Collocato al centro di una piazza ovale sulla grande Via Colonnata, il tetrapilo aveva la funzione di dissimularne un cambio di orientamento. Le foto satellitari pubblicate dall’Asor mostrano chiaramente che delle sedici colonne monolitiche in granito rosa che costituivano, a ciascun angolo del monumento, quattro edicole un tempo contenenti una statua, ne restano ora soltanto quattro.

Malgrado avesse subìto un pesante restauro in cemento, il tetrapilo era uno dei monumenti più ammirati dai visitatori di Palmira. Non sembra casuale neppure lo sfregio inflitto al teatro, di cui è stata demolita la maestosa facciata (anch’essa, tuttavia, oggetto di interventi moderni).

Dalla cima del proscenio sventolava infatti, nel luglio 2015, la bandiera nera del Califfato mentre – in una cavea gremita di pubblico – si svolgeva la terribile esecuzione di una ventina di soldati governativi per mano di ragazzini trasformati in boia.

Della medesima location aveva approfittato nell’aprile 2016 la propaganda russa che, in sostegno del regime di Assad, aveva festeggiato la «liberazione» del sito con un pomposo concerto dell’Orchestra filarmonica del teatro Mariinsky di San Pietroburgo.

Con quest’ultimo atto, gli «idoli» aborriti dall’Isis hanno dunque preso le sembianze di bersagli in carne e ossa e l’Occidente non è riuscito – malgrado proclami Unesco e promesse italiane di invio dei Caschi blu della cultura – a proteggere la storia che univa le due sponde del Mediterraneo in un antico melting-pot di civiltà e tradizioni artistiche.

Le pietre di Palmira sono innocenti e giacciono come caduti di guerra nel campo di battaglia in cui tutti gli attori del conflitto siriano si sono accaniti.