In Italia, la misura del successo di una iniziativa è data dal numero dei padri autocertificati. E il referendum costituzionale si avvia a diventare orfano.

Ufficialmente, non è più di Renzi-Boschi, ma di Napolitano, e in via subordinata, degli italiani.

La paura fa novanta. Ma non c’era Napolitano in Parlamento a costringere manu militari gli eletti dal popolo a trangugiare una minestra palesemente sgradita a molti. Non era Napolitano il presidente del consiglio che minacciava crisi e sfracelli nel caso di mancata obbedienza.

Né ancora era Napolitano a sbarrare la porta a ogni critica per quanto pacata e ragionevole. Può darsi che Napolitano volesse una riforma. Ma quella riforma? E l’Italicum? Cosa avrebbe impedito di opporre un pacato no? O forse abbiamo uno scriba per presidente del consiglio?

Napolitano potrebbe – e forse dovrebbe – anche risentirsi per l’attribuzione insistente di una paternità, che diventa per lui pesante nel momento in cui una buona metà del paese ne rifiuta il prodotto.

Certo non è compito di un presidente della Repubblica dettare al governo una revisione costituzionale, ancor meno se tanto controversa e se tocca l’architettura stessa del sistema democratico. Ed è significativo che abbia ripudiato la riforma elettorale, che alla legge Renzi-Boschi indiscutibilmente si lega. Così, per il caso che Napolitano disconoscesse tale paternità, Renzi intesta la riforma – in seconda battuta – agli italiani.

Ma come può farlo, se il progetto riformatore non è stato mai incluso in un programma di governo sottoposto al vaglio elettorale? A chi è stato mai chiesto se il bicameralismo paritario andava superato imbottendo il senato di personale politico in secondo grado e di seconda scelta?

Renzi non può parlare della sua legge come se fosse stata liberamente approvata da una assemblea costituente rappresentativa ed eletta democraticamente. È il prodotto di un partito e di un parlamento scalabili e scalati, secondo la sua stessa definizione. Per questo, ha piuttosto i caratteri di una scorribanda di borsa o di un leveraged buy-out.

Anche dopo la fuga di Renzi la genesi malata della legge costituzionale condiziona il dibattito. Ha ragione il presidente dell’Anpi Smuraglia a dire che non basta un confronto faccia a faccia a risolvere il problema della censura nelle feste Pd sulle ragioni del No. La questione investe la natura stessa del Pd.

Chi ne ha conosciuto gli antenati sa che un tempo non sarebbe mai accaduto che da Roma partisse l’ordine di negare per qualsivoglia motivo la partecipazione dell’Anpi alle feste dell’Unità. E se mai fosse partito, non sarebbero mancati militanti pronti a metterlo in discussione e persino a disattenderlo. Che ciò non accada ora testimonia quanto lo spirito della Resistenza e della Costituente sia cosa dimenticata, sconosciuta, aliena per il Pd di oggi.

Che impatto avrà il disconoscimento di paternità del referendum da parte di Renzi? Il riferimento a elezioni nel 2018 dovrebbe rassicurare gli alleati di governo sul trovarsi con l’acqua alla gola per un voto a breve termine. Dovrebbe dare fiato a chi nelle opposizioni in vario modo considera appetibile la prospettiva di riprendere un discorso con il Pd, magari votando sì nel referendum. E potrebbe infine svelenire i rapporti con la minoranza interna, aprendo all’illusione di avere tempo per una ampia rivisitazione dell’Italicum.

Ma perché Renzi non esclude esplicitamente anche la crisi di governo? Dopo il disconoscimento di paternità potrebbe farlo, e questo toglierebbe forza al fronte di chi vota no sperando nella spallata. Il punto è che – da Confindustria alla finanza internazionale – il mondo del denaro e del potere si è schierato per il sì, argomentando che calamità e disastri colpirebbero l’Italia in caso contrario. Senza tema del ridicolo, qualcuno argomenta che la sconfitta referendaria di Renzi sarebbe peggiore di Brexit. In questo schieramento troviamo i veri ghost writer delle riforme, ai quali il governo italiano ha svenduto la sovranità popolare garantita dall’art. 1 della Costituzione.

Se dopo aver escluso lo scioglimento anticipato, Renzi escludesse esplicitamente anche la crisi di governo, la pubblicizzata fine del mondo si ridurrebbe a sceneggiata strumentale e di infimo ordine. D’altra parte, Renzi non può più minacciare le dimissioni in caso di sconfitta, perché in tal modo il referendum tornerebbe a essere “suo”.

Sulla vita del governo l’unica via è tacere. E certo non gli dispiace.

Non è però escluso che, in luogo di Renzi, di crisi e disastri continuino a parlare le seconde linee, che il capo può sempre correggere o smentire. Ricordiamo che gli antichi governanti sostenevano la necessità di dare al popolo panem et circenses. Ora, i potenti argomentano di pane e riforme. Nel senso che avrete il pane solo se votate sì alle riforme.