Descrivendo l’arrivo della posta al mattino, buste con francobolli colorati accanto a pane tostato e tazze di tè, Virginia Woolf apre una digressione nella Camera di Jacob per osservare come una nostra lettera sul tavolo di un’altra persona sia l’immagine esatta del «potere che ha l’anima di abbandonare il corpo». Probabilmente detestiamo quel «fantasma di noi che giace sul tavolo», ne abbiamo paura e vorremmo annientarlo. Tuttavia, continua parecchie righe più avanti, dovremmo nutrire devozione per le lettere, poiché il nostro «viaggio è solitario» e loro ci consentono almeno di procedere affiancati, anche di «parlare camminando». Benché l’opera di Woolf fosse poco apprezzata dalla narratrice italiana, sembra difficile trovare un’altra frase capace di riassumere con la stessa precisione la necessità vitale che innerva la corrispondenza inviata da Paola Drigo a Bernard Berenson durante la loro breve amicizia e ora edita in Come un fiore fatato (Il Poligrafo, pp. 291, € 25,00) per la cura appassionata, insieme puntuale di Rossana Melis.
Nata a Castelfranco Veneto nel 1876 da una famiglia illuminata e benestante, costretta a interrompere gli studi per la morte prematura del padre, Paola Drigo esordì nel 1913 con un volume di racconti e ne pubblicò in seguito altri quattro, ma divenne nota solo nel 1936 grazie all’unico romanzo Maria Zef. A ventidue anni aveva sposato un facoltoso ingegnere padovano molto più vecchio di lei e presto si era trasferita in una storica villa della campagna vicentina: qui, costretta una volta vedova a occuparsi anche della tenuta, avrebbe trascorso nonostante i frequenti viaggi più o meno il resto della vita. Partono con poche eccezioni da Ca’ Soderini, con poche eccezioni sono dirette ai Tatti, le 103 lettere che Drigo scrisse a Berenson tra l’estate 1934 e l’autunno 1937: a Cà Soderini, caduta nell’incuria già dal 1938 con la sua morte, sono andate perdute quelle che l’autore dei Pittori italiani del Rinascimento le aveva a propria volta indirizzato. Il lettore ascolta dunque un dialogo a metà, un colloquio per una voce sola.
È un peccato, certo, che le parole del grande Berenson siano ormai irrecuperabili. «La conversazione, il prendere e il dare nel parlarsi, è stata per me sin dai miei giovanissimi anni, e rimane adesso più che mai, la suprema gioia della vita», dichiarava in una lettera del 1930 a Clotilde Marghieri: né tale inclinazione, stando almeno al folto carteggio poi raccolto dalla scrittrice napoletana in Lo specchio doppio (1985), sembra svanire con il passaggio alla forma epistolare. Si potrebbe anzi supporre che l’atteggiamento di Berenson, malgrado la differenza palpabile tra i due legami, non si allontanasse troppo anche nei confronti di Paola Drigo da quella che Marghieri definiva nel ’35 una delle più «raffinate ambiguità» di lui: la sapienza nell’accarezzare «con la mano vellutata che nasconde l’artiglio», l’arte elegante di graffiare per spingere l’altro a scoprirsi. L’immagine è insomma quella di un rapace intento a stanare la sua preda perché spieghi le ali e prenda il volo.
«Ella, Maestro, m’incoraggia a tentare il romanzo. Ma badi che romanzi brutti, o insignificanti, ce n’è anche troppi in Italia. Ed io vorrei fare, se mai, una cosa molto bella», confessa Drigo nella sua prima lettera, aggiungendo subito dopo: «ho grande amore per le mie storie brevi o lunghe che siano, spesso complesse e studiate quanto un romanzo, e cerco di disegnarle col maggior rilievo ed insieme con la massima apparenza di semplicità». È il 31 luglio 1934, la corrispondenza era cominciata con l’invio a Berenson di un racconto intitolato L’amore e stampato oltre vent’anni prima nel libro d’esordio La fortuna. In quel 1934 l’autrice è una donna che vive sola, le fastidiose incombenze della campagna, cui si aggiungeranno ben presto i sintomi iniziali della malattia, le impediscono di lavorare come vorrebbe; la mortifica l’incapacità di trovare un editore per il suo unico racconto lungo Fine d’anno (’36) e si duole di non essere apprezzata come sente di meritare; spera di ottenere una collaborazione con il Corriere della Sera, che arriverà troppo tardi: ha perfino difficoltà a definirsi una scrittrice.
L’assenza delle lettere di Berenson, cui ben poche volte avrà occasione di parlare a voce, rende paradossalmente più limpido il percorso interiore affrontato da Drigo nel colloquio epistolare. Foglio dopo foglio la corrispondenza le diventa autobiografia, diario intimo, monologo davvero libero perché alimentato dalla distanza e pronunciato al buio. L’attenzione del grande critico d’arte è una forza che la scalda, la spinge a ritrovare il centro di se stessa: il 14 novembre 1935 gli annuncia di avere finalmente in testa la conclusione di una storia avviata nel 1932 ma subito interrotta. Si tratta di «un fatto curioso», aggiunge, perché il motivo «invano cercato per oltre due anni, ecco che senza cercarlo arriva, maturo, compiuto!». Quella storia è Maria Zef, per la «straordinaria e secca magia dello stile» definito nel 1982 da Claudio Magris «un vero piccolo capolavoro», uno di quei libri capaci di lasciare «un segno indelebile nella memoria». Della stesura definitiva del romanzo, più esattamente del coraggio e della tenacia necessari per finirlo, Come un fiore fatato appare adesso lo struggente giornale di bordo.
Lavorando «a togliere, a sfrondare, a disabbellire», chissà se Drigo si accorse di avere descritto in Maria Zef lo stupro della protagonista con la stessa immagine utilizzata tanti anni prima per un’altra delle sue «modeste creature senza splendore»: anche Nanna era stata infatti violentata in L’amore, proprio il racconto spedito al suo corrispondente nel 1934, come «il cane prende la cagna». L’esistenza stessa di Maria Zef – lo conferma in misura obliqua quanto efficace questo ricordo inciso nella carne viva del testo – è per noi la traccia più vistosa della voce perduta di Berenson, l’impronta di quel suo artiglio nascosto nella carezza di velluto.