Nel cuore del nostro percorso rilanciamo un importante episodio della nostra storia e uno spaccato di una cultura lontana.
Senza posa, da infiniti anni costruiamo un archivio di immagini, film, fotografie, negativi, positivi, su lastra, su celluloide, oggetti etnografici, giocattoli, frammenti di tappeti.
In questo caso (per il padiglione armeno della Biennale di Venezia n.56, ndr) abbiamo raccolto un «tappeto» di racconti di fiaba. Una sarabanda di colori, di suoni, di immagini.

Negli anni Ottanta inizia una corrispondenza, attraverso parole registrate dalla voce / suono di Raphael, padre di Yervant. Raphael è un rarissimo prezioso interprete (forse l’ultimo)? di antiche fiabe che escono da una girandola di parole, armene, curde, turche, persiane, yezide… Un suono: la sua voce cantilenante, in italiano da straniero, con terminologie talvolta bizzarre, che escono da una traduzione fantasiosa e fascinosa. Fascinosa perché come si ascolta la prima fiaba, si vorrebbe continuare ad andare avanti, ascoltare, ascoltare ancora. Tintinnano le chiavi della lingua. Non c’è parentela per esempio, con il meraviglioso Andersen, tutta luce del Nord, cigni, sirenette. Qui il quadro cambia. L’atmosfera è arcana, complessa, arcaica, non ci sono i voli dei candidi cigni, ma belve che popolano i boschi caucasici, orsi, lupi, volpi, pesci voraci che nuotano nei fiumi impetuosi o nei mari, invertebrati nei deserti assolati. Una zoologia che si ritrova nei musei di storia naturale. Formichieri, pesci occhio, cavalli selvaggi… Improvvisamente talvolta gli animali feroci si rivelano protettori dell’eroe indifeso dagli uomini ben più crudeli.
La prima fiaba che Raphael inizia a raccontare ha un titolo: Meglio il serpente della donna.Ah! Là (in Armenia) Dumas nell’Ottocento scriveva: «la femme armenienne ose à peine lever les yeux sur son mari» (la moglie armena osa appena alzare gli occhi per guardare il marito) – Dumas, Voyages en Russie, 1865, «Impressions de voyage».

Gli oggetti nelle fiabe: i cesti, i sacchi, gli archi, le frecce, i coltelli, le scuri, l’oro. La natura: alberi magici, erbe con funzioni benigne o malvagie, o dannose. Un paesaggio non addomesticato da percorrere soprattutto a piedi.
Molto scorrere d’acqua, cascate, fiumi impetuosi, torrenti, laghi, mari, pozzi oscuri. Dall’acqua come una magia sorge la salvezza: il pesciolino d’oro. Puskin ne elaborerà una bellissima fiaba, diventata un classico, ma che parte da lì. L’uomo, il bambino ha bisogno del miracoloso, della speranza, come ha bisogno che le fiabe abbiano un lieto fine, i crudeli e i malvagi siano puniti, la pace e l’amore siano ritrovati. Nei nostri tempi così disastrosi anche per la natura, questi respiri bucolici riempono i polmoni dell’anima. Si sentono respirare e sussurrare le betulle d’argento, i profumi delle cortecce di tiglio e pensi a Linneo e alle piante vagabonde (di Gilles Clément!).
Per Yervant è un andare incontro alla storia di una terra lontana che avrebbe potuto appartenergli, per Angela, cullata nell’infanzia dai racconti di fiabe, è la scoperta di una letteratura lontana, ma appassionante. Poi, c’è questo bellissimo rapporto: il padre mette nelle nostre mani, e ci dona, una parte poetica della sua cultura «caucasica» e noi due l’afferriamo per porgerla a nostra volta a chi vede e ascolta.
Tre sono le mele simboliche che chiudono le fiabe: una mela per chi ha raccontanto, una per chi ha ascoltato, una per chi ha capito. Questo rapporto doveva trovare una forma, una espressione. Una forma non disgiunta dal significato. È nata così l’idea del rotolo, come gli antichi rotoli della «Geniza», facili da trasportare.

Una non piccola parte della cultura armena è stata salvata da chi se l’era cucita addosso durante i massacri , poi ricomposta dopo il genocidio del popolo armeno. Gli acquarelli sono anch’essi facili da trasportare, piccole scatole di latta dai tasselli colorati e una manciata di leggeri pennelli. Ne esce tanta luminosità.
Le antiche storie-fiabe dai titoli «favolosi» uscivano da sole, si dipanavano come un tappeto sul candore del tessuto /carta che è la carta un po’ grumosa dell’acquarello, tanto amato dai grandi Nolde, Kokoschka, Schiele …- I titoli: La sposa timorosa, Una bugiarderia. Il pesce d’oro, Il figlio del re d’Armenia (la volpe, il lupo, l’orso, l’avvoltoio), Fratello agnello, L’albero di melo immortale, Lo scritto sulla fronte dell’uomo non si cancella, Il re Arslan
Le sedici fiabe, nel foglio, si dipanano come una mappa, senza gerarchie dall’alto in basso, centimetri 76 per 17 metri. Risalgono verso l’alto in una specie di arabesco, di peculiare mescolanza, oltre che delle immagini, rappresentazioni, colori, i sentimenti eterni degli uomini: amore, invidie, terribili sofferenze, vittime col contrappunto dei carnefici.

Una antropologia latente di una cultura apparentemente lontana nel tempo e nella geografia. Il rotolo è una ricchezza multiculturale con elementi autobiografici: Sogni. Descrizioni, interpretazioni. Rituali famigliari. Incontri e ritratti di persone incontrate. Osservazioni degli insetti. Momenti coniugali, lavoro femminile. Ritratti colti per strada, all’improvviso…
Parlare per immagini è per noi un continuum col nostro cinema. I re, le regine, gli animali, la natura, le piante, le gioie, le sofferenze etc. sono su fondo bianco, neutro, non collocabile, non definibili geograficamente, senza «spiega».
In un unico dipinto medievale la madonna indica il pene di Gesù: vuol dire che si è fatto «Uomo». L’arte non ha bisogno di parole, come diceva Oskar Kokoschka.

Il film Ritorno a Khodorciur- Diario Armeno (1986): è un ritratto del «traduttore» dei racconti di fiaba.

A fianco del nostro lavoro sulle immagini d’archivio sulla violenza del secolo appena trascorso sta questo archivio di parole, che ora collego ai miei ricordi, al rapporto avuto con mio padre nel corso degli anni, inerente alle vicende della sua infanzia che ancora non conoscevo. Amava camminare in compagnia della gente. Ormai anziano, si iscriveva a maratone, con moltitudini di partecipanti. Solo più tardi ho collegato questa sua passione con il suo ricordo della deportazione, delle marce forzate, della eliminazione fisica dei partecipanti, massacrati dalla fatica, dalla fame, dalla sete, dalle folle «inferocite», che i diecimila abitanti Armeni del suo paese incontravano, percorrendo la Turchia, guidati dai gendarmi Turchi (…) durante un cammino di più di sei mesi, nell’anno 1915. Camminando celebrava la propria sopravvivenza passata, rendendo un silenzioso omaggio a coloro che non ce l’avevano fatta: quasi tutti.