«L’accordo è pronto al 95%, la paralisi ora è politica», ha spiegato in un’intervista al manifesto l’ex ambasciatore italiano in Iran Roberto Toscano. «L’accordo sul nucleare è veicolo di molto altro sia in politica estera che interna: è il passaggio obbligato per la normalizzazione delle relazioni con l’Iran», ha aggiunto. «In politica interna, il presidente Hassan Rohani ha puntato tutto sull’accordo, attendendo la sigla dell’intesa prima di impegnarsi sulle richieste che vengono dalla società civile iraniana. Il fallimento dei colloqui segnerebbe la fine politica dei moderati», ha proseguito Toscano.

«Ma il problema principale per arrivare all’intesa non è a Tehran ma a Washington. L’opinione pubblica Usa percepisce l’Iran come un paese di cui non ci si può fidare, il Congresso è pronto ad approvare ulteriori sanzioni e sarà difficile che voti per la cancellazione di quelle esistenti. Eppure Obama ha avuto coraggio ad arrivare fino a questo punto nonostante i costi politici che i colloqui con l’Iran hanno comportato», ha aggiunto l’ambasciatore.

Ma anche l’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea) ha puntato il dito contro la mancanza di trasparenza di Tehran. «L’Aiea ha cambiato linea con la fine della direzione di Baradei, ora è allineata su posizioni vicine agli Stati uniti. Eppure è importante sottolineare che se i negoziati non vengono sbloccati da questi negoziatori (una figura come Zarif sarà difficile che si ripeta), un accordo con l’Iran non si raggiungerà facilmente», ha commentato Toscano. «Un ruolo centrale lo ha assunto anche l’Oman nei negoziati, tanti hanno lavorato perché si raggiungesse l’accordo. Ma sauditi e israeliani continuano a temere un cambiamento degli equilibri regionali», ha concluso l’ambasciatore.

Se tra la borghesia urbana iraniana un accordo a Vienna con il mondo sembra imminente, tra i radicali le attese sono ben diverse. Pasdaran e paramilitari vivono queste ora come una resa dei conti. Già alla vigilia dei colloqui decisivi in corso in Europa, in vari assembramenti, i malumori dei proseliti dell’ex presidente Mahmud Ahmadinejad sembravano incontenibili, mentre le copie dei discorsi della guida suprema Ali Khamenei andavano a ruba, venduti per 30 centesimi di euro. Gli opuscoli riportavano celebri citazioni del grande ayatollah, tra le quali spiccava la nota: «Sono un rivoluzionario non un diplomatico» che da sempre ha sottolineato lo scetticismo con cui Khamenei ha trattato i colloqui con l’Occidente, tanto cari a tecnocrati e moderati.

All’interno di un cinema, usato dai radicali per criticare il «new deal» nucleare, gli schermi mostravano le immagini degli ingegneri uccisi tra il 2010 e il 2012 da attacchi mirati «di Stati uniti e Israele», come recitavano gli slogan sullo schermo.

E poi, «Nessun compromesso, nessuna sottomissione, combattere con l’America»: si leggeva su uno striscione tenuto in vista da alcuni uomini. Se il ministero dell’Interno, vicino al presidente moderato Hassan Rohani, non ha approvato assembramenti che si opponessero ai negoziati per il nucleare di Vienna, in incontri come questo i radicali iraniani continuano a calpestare la bandiera degli Stati uniti, a gridare «Morte all’America» e a motivare il loro stesso impegno politico nell’esasperazione dello scontro con il nemico.

Di questo fervore a Vienna non ce n’è traccia. I colloqui sono entrati in una fase estremamente delicata in cui si è discusso apertamente dei progetti di ricerca nucleare in Iran tra i negoziatori di Tehran, guidati dal ministro degli Esteri, Javad Zarif, e i cinque paesi che siedono nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite con la Germania (P5+1). In questo momento a preoccupare gli iraniani è come verrebbero cancellate le sanzioni internazionali (ulteriormente inasprite dal Congresso Usa negli ultimi mesi). In particolare, per l’embargo imposto dagli Stati uniti a imprenditori e banche che fanno affari con l’Iran, mentre il Congresso è a maggioranza repubblicana dopo le elezioni di midterm, ogni decisione di cancellazione delle sanzioni, stabilita a Vienna, potrebbe non essere recepita da Washington.
E così, le dichiarazioni incoraggianti del ministro degli Esteri tedesco Walter Steinmeier – «Non siamo mai stati così vicini a una soluzione» -, sono state ridimensionate da Zarif. Secondo il carismatico capo negoziatore iraniano non è «emersa alcuna proposta significativa che Teheran possa esaminare». E così il ritorno a Tehran di Zarif per chiedere la benedizione di Khamenei su una nuova bozza negoziale è saltato e anche il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov non è volato a Vienna per suggellare l’accordo.

Proprio sull’incertezza nella cancellazione delle sanzioni ha puntato la diplomazia iraniana per spiegare la decisione di Tehran di non mettere l’acceleratore alle trattative, cogliendo l’intenzione espressa dal Segretario di Stato Usa John Kerry, nei colloqui informali di due settimane fa in Oman, di arrivare a un accordo finale entro il 24 novembre, aprendo forse la strada per nuovi colloqui tecnici per mettere un’intesa di massima, che accontenti le attese.