J.J. Abrams, lo ha definito meno un sequel che un successore spirituale di Cloverfield e, fin dall’inizio, 10 Cloverfield Lane evoca lo stesso amore per la sci-fi a basso costo degli anni quaranta e cinquanta che attraversa, non solo il film diretto nel 2008 da Matt Reeves, ma tutto il lavoro del regista dell’ultimo Star Wars. Tra la paranoia della Guerra fredda riflessa nelle invasioni marziane di Jack Arnold e William Cameron Menzies, quella inventata radiofonicamente dal Mercury Theater di Welles in La guerra dei mondi, e i Saw, 10 Cloverfield Lane è un film di genere come se ne facevano molti anni fa. Solo molto più costoso. La sua relativa purezza sta nei limiti che s’impone; più per affinità elettiva, che per reale costrizione finanziaria, giocando sui meccanismi della paura scavati dentro un unico spazio (un rifugio sotterraneo) e la temibile ambiguità di un personaggio. Il resto – fuori- è lasciato all’immaginazione. Almeno fino a circa quindici minuti dalla fine.

Michelle (Mary Elizabeth Winstead) guida lungo una strada buia nella notte, lasciandosi dietro New Orleans e il fidanzato, quando, l’ombra un po’ infernale di un pick up che la supera nella corsia opposta, con un colpo violentissimo, la butta fuori strada. Si sveglia, come una delle vittime di Jigsaw, incatenata al pavimento di una stanza grigia e senza finestre. Probabilmente ha una gamba rotta. Quando finalmente riesce a vedere il suo carceriere, è un uomo alto e molto grasso (John Goodman), che non dice una parola ma le porta del cibo e se ne va.

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Lei è convinta di essere finita nelle mani di un pazzo, e cerca di scappare, fino a che lui le spiega di averla salvata da quello che sta succedendo fuori: un’invasione aliena accompagnata dell’emissione di un gas che sta decimando la popolazione terrestre. Howard (nell’interpretazione sfaccettata di Goodman) è un ex militare delle forze speciali, il suo volto passa dall’imperscrutabilità , alla ferocia di un orco, alla dolcezza di un padre. Costruito, evidentemente nell’arco di anni, e per rimanerci a lungo, il suo rifugio, aldilà della prigione, ha stanze come il set di una sitcom famigliare – Married with Children agli inferi (da ricordare che John Goodman era Dan, il paziente, dolce, marito di Pappa e ciccia la famosa sitcom domestica con Roseanne Barr), con le porzioni razionate e una toilette senza privacy.
Famiglia è un po’ anche quella che si ricrea tra Howard, Michelle e un terzo occupante del rifugio, Emmett, un manovale che sembra credere, come Howard, che la loro sopravvivenza sta in quel labirinto sotto terra. Forse per sempre. Sulla loro poco serena serenità famigliare, pesano anche il fantasma di una figlia di Howard (sottrattagli dalla moglie e quindi morta in superficie, racconta lui), quello di una signora che ha cercato invano di entrare nel rifugio (mentre il suo volto si decomponeva orribilmente sotto lo sguardo dei suoi occupanti), e alcuni barili di acido….

Dan Trachenberg (alla sua prima regia) e i suoi sceneggiatori (tra cui anche Damien Chazelle) usano il template della guerra fredda ma, in quest’anno elettorale, la paura di quello che sta fuori, e che non appare per quasi tutto il film, evoca la paranoia «dell’altro» che sta facendo la fortuna politica di Donald Trump. E quel labirinto sotterraneo, con divani imbottiti da cui guardare uno schermo tv scollegato da quello succede nel mondo, il miraggio di un’America congelata e protetta dalla sua cecità.

L’immagine è abbastanza forte e rimanda all’horror politico da cui Romero, Carpenter e Tobe Hooper, con la sua famiglia cannibala nella foresta, hanno tratto capolavori. Un meccanismo di suspense ben oliato ed efficace, 10 Cloverfield Lane, senz’altro, capolavoro non è. E diventa più convenzionalmente «abramsiano» – passando dal piano politico a quello dei nerds- nella sua ultima parte, quanto Michelle, lasciandosi nuovamente indietro non uno ma due uomini, decide che l’unico modo di vedere se quello che le stanno raccontando in superficie è vero è uscire e affrontarlo da sé.