«In conformità con la decisione del comandante supremo in capo Vladimir Putin, il ministero della Difesa sta cominciando a ridimensionare il raggruppamento delle forze armate in Siria». Con questo scarno comunicato il capo di stato maggiore russo, Valery Gerasimov, ha annunciato ieri che il gruppo navale guidato dalla portaerei Kuznetsov lascerà il Mediterraneo. Pochi minuti dopo il presidente dello stato maggiore siriano, Ali Abdullah Ayyoub, ha ringraziato Mosca sottolineando che «Il sostegno che l’aviazione russa ci ha offerto è stato fondamentale per le nostre vittorie, che hanno aperto la strada al cessate il fuoco e ha creato le condizioni per il lancio di una soluzione politica della crisi siriana». Non è l’inizio del ritiro militare della Russia dalla Siria. Mosca non ha alcuna intenzione di farsi da parte. Allora perché la Kuznetsov, così importante, lascia le acque davanti alle coste della Siria. Un motivo è sicuramente legato alle spese che comporta l’impiego della portaerei e dei suoi cacciabombardieri, quantificabile in diversi di milioni di euro al giorno. Ma non è quello decisivo. La partenza della Kuznetsov ha una spiegazione principalmente politica.

La mossa è stata certamente coordinata con il presidente siriano Bashar Assad. Putin, dopo la vittoria delle forze governative siriane ad Aleppo e il coordinamento con la Turchia per l’annuncio del cessate il fuoco in Siria, ora vuole capitalizzare al tavolo trattative previste il 23 gennaio ad Astana. Punta su quel negoziato, deciso assieme ad Ankara e Tehran, per raggiungere una soluzione politica per la Siria che da un lato garantisca la continuità della leadership al potere e dall’altro permetta alla Russia di mantenere le sue basi in Siria e di svolgere il suo ruolo nella regione. Il ritiro della portaerei invia segnali concilianti a più indirizzi, soprattutto a quei Paesi, occidentali e arabi, che sponsorizzano l’opposizione siriana. Mosca li vuole più attivi. Alcuni giornali arabi, in particolare al Hayat, riferivano ieri dell’insofferenza russa verso i forti contrasti sorti tra le forze “ribelli” che ostacolano la composizione della delegazione da inviare ad Astana. Putin invece ha fretta. Vuole che Astana renda irrilevanti i nuovi colloqui a Ginevra che sta organizzando l’inviato dell’Onu per la Siria, Staffan De Mistura. E intende mettere l’opposizione siriana e i suoi sponsor con le spalle al muro, di fronte a un prendere o lasciare: questa è l’unica possibilità di trovare un accordo politico altrimenti saranno le armi a decidere tutto, come ad Aleppo. In questo senso si devono interpretare anche gli avvertimenti che il ministro siriano Ali Haidar ha rivolto ieri ai “ribelli” con un’intervista concessa alla Reuters. Se non ci sarà un accordo internazionale, ha ammonito Haidar, il governo è pronto a una «guerra aperta» per riprendere il controllo della provincia di Idlib, perduta due anni fa e dove si sono diretti migliaia di “ribelli” di Aleppo e di altre città riconquistate da Damasco.

Intanto resta fragile la tregua proclamata da Ankara e Mosca. Le armi tacciono ad Aleppo Est liberata dall’esercito ma la guerra prosegue in varie parti della Siria. Il campo di battaglia principale ora è a Wadi Barada, una valle alle porte di Damasco da dove proviene la maggior parte delle risorse idriche per la capitale. Acqua che, denuncia il governo, i combattenti qaedisti di Fatah al Sham, già Fronte an Nusra, e altri gruppi armati inquinano e deviano per mettere in ginocchio Damasco. Da qui i raid aerei governativi su tutta l’area che tuttavia è ancora sotto il controllo dei qaedisti e dei loro alleati. L’opposizione invece addossa ogni responsabilità al governo che, dice, con i bombardamenti aerei ha provocato danni agli impianti di pompaggio. La situazione è di stallo con i “ribelli” che controllano il villaggio strategico di Busujima. A nord invece le Forze democratiche siriane (Sdf) a predominanza curda, sostenute dagli Usa, ieri hanno strappato allo Stato islamico il castello medievale di Jaabar, a ridosso della diga di Tabqa sull’Eufrate e sono sempre più vicini alla città di Raqqa, dove ieri un raid aereo americano ha ucciso un leader dell’Isis, Mahmud Al-Isawi. La Turchia da parte sua ha annunciato di aver ucciso 32 combattenti dello Staro islamico nella regione di al Bab.