L’aveva detto la ministra Boschi, ieri l’ha rilanciato su twitter il premier Renzi: «Dopo 4 voti in parlamento, faremo un referendum. Perché le opposizioni urlano? Di cosa hanno paura? Del voto degli italiani?». Il referendum sulle riforme dunque si farà a prescindere. Ieri mezzo mondo si chiedeva come, visto che l’art.138 della Costituzione lo prevede solo nel caso del non raggiungimento dei due terzi delle camere nelle ultime due votazioni. Per renderlo obbligatorio ci vuole un’altra riforma costituzionale. Altrimenti basterebbe un gentlemen’s agreement[/ all’interno della maggioranza per non raggiungere i due terzi. «Potremmo chiedere a Chiti e Casson se per favore votano contro», scherzava ieri un senatore democratico. «Se Renzi parla di referendum vuol dire che la nostra battaglia ha già dato un primo frutto», ragiona Peppe De Cristofaro (Sel). Ma la spiegazione potrebbe essere più semplice. Il duo Renzi-Boschi mette le mani avanti e ammette la prima non-vittoria, se non sconfitta: le riforme non avranno i due terzi di sì.

Si vedrà più avanti. Intanto restano impantanate al senato in attesa di un qualche accordo che sblocchi il pantano e le vacanze dei senatori. «Al momento di segnale non ne è arrivato nessuno. Se il governo voleva discutere, aveva molti modi. Uno era portare l’Italicum subito in commissione: non perché vogliamo fare scambi, ma perché per noi il combinato disposto con senato di nominati e camera di nominati è micidiale». Loredana De Petris, protagonista dell’ostruzionismo – 6mila emendamenti firmati a nome di Sel – giura che fin lì – ma siamo alle tre del pomeriggio – né il governo né la maggioranza si sono fatti vivi. Attenzione: se però le si parla di «possibile trattativa» s’arrabbia. Sull’Unità il capogruppo Pd Zanda ha lanciato un’allusione velenosetta: «Se la richiesta era arrivare ad accordi politici dietro le quinte, oggi non poteva essere accettata». «Evidentemente Zanda quando parla di ’accordi dietro le quinte’ si riferisce al suo partito e al patto del Nazareno. Noi abbiamo chiesto al governo, a Renzi e a al ministro Boschi, di dare ai cittadini la sacrosanta possibilità di scegliersi i rappresentanti in parlamento, siamo stanchi di istituzioni fatte di nominati».

Il riferimento è al nuovo senato ma anche all’Italicum. La strana minoranza che si oppone a (queste) riforme costituzionali – rossi, verdi e grillini, opposti frontisti berlusconiani e democratici, una misticanza incommestibile ma fin qui compatta e ben coordinata – reclama di sapere se e come la legge elettorale sarà cambiata. I punti: le preferenze (sulle quali gli ex bersaniani tornano a battere come soluzione di tutti i guai), le soglie e il premio di maggioranza.

Un gesto di buona volontà su uno di questi tre punti potrebbe migliorare di parecchio il clima a Palazzo Madama. Ma sulle soglie e sul no alle preferenze Berlusconi è irremovibile: sono le armi per costringere l’Ndc a tornare in alleanza. Ergo: una modifica dell’Italicum sarebbe la chiave per risolvere le riforme costituzionali, ma la chiave ce l’ha in tasca l’ex Cavaliere, non Renzi.

Quindi si torna alla casella iniziale, quella del nuovo senato. Giovedì, al Quirinale, i tre capimarcia ostruzionisti ricevuti al Colle si sono sentiti annunciare un’iniziativa di Anna Finocchiaro. Chi ha parlato con lei ha ascoltato una smentita: la relatrice entrerà in scena ad accordo fatto, eventualmente, per stendere i nuovi emendamenti. Altri invece parlano di un’esplorazione di Zanda. Per De Petris «solo la ministra Boschi ha tutte le carte per trattare». E lei, che pure fin qui non ha avuto un rapporto cordiale con le opposizioni («Sarò antipatica, ma a me in commissione non mi ha mai risposto», dice la senatrice), giovedì aveva lasciato capire di essere pronta a fare un passo. Subito dopo però è arrivata la richiesta di tagliola di Zanda, seguita da bagarre e marcia verso il Colle. E tutto è di nuovo tornato alla casella iniziale.

Ieri mattina di nuovo De Petris, Petruccelli (M5S) e Centinaio (Lega) si sono incontrati per fare il punto. Nessuno aveva ricevuto segnali. Tranne quello di Beppe Grillo. Che per scongiurare qualsiasi tentazione trattativista anche dei suoi, spara alzo zero sul Colle: «Questo si chiama colpo di Stato. Mussolini ebbe più pudore. Non lo chiamò ’riforme’. Il regista di questo scempio è Napolitano che dovrebbe per pudore istituzionale dimettersi subito e con il quale le forze democratiche non dovrebbero avere più alcun rapporto».

Discorso chiuso? E però Renzi deve decidere: la data dell’8 agosto, indicata come termine per l’approvazione delle riforme, senza un accordo non è neanche indicativa. Può lasciare slittare tutto a settembre e usare i «senatori frenatori» minacciando un voto anticipato impossibile (per dire: senza legge di stabilità, in pieno semestre, con un capo dello stato poco propenso a sciogliere le camere, nel corso di un autunno in cui i nostri conti si riveleranno più neri del previsto); oppure «mollare» qualcosa e portare a casa il voto di Palazzo Madama.

Il malloppo «trattabile» si conosce da tempo. Per Renzi due punti del nuovo senato sono intoccabili: l’elettività e il numero dei parlamentari. Resta un ampio spazio di manovra: il numero delle firme dei referendum abrogativi potrebbe scendere da 800mila a 700mila, i referendum propositivi da introdurre (ma «opportunamente regolamentati», chiosa il bersaniano Miguel Gotor, «altrimenti, non sia mai, potrebbe diventare ammissibile un quesito sulla pena di morte»); sul tema delle «garanzie», il numero dei grandi elettori potrebbe allargarsi ai 73 europarlamentari. E l’immunità. Basterebbe? C’è chi giura di sì, almeno per Lega e Sel, i 5 stelle se la vedano con i diktat di Grillo. Naturalmente c’è chi dice di no: «Nessuno si illuda che abbiamo fatto tutto questo per 100mila firme in meno ai referendum», avverte De Petris. Comunque il week end, giurano in molti, porterà consiglio. Nessuno staccherà il cellulare