È consolidata l’analisi sul riposizionamento centrista del Pd e le relative conseguenze sul nostro scenario politico (tra gli altri, Franco Monaco su questo giornale qui e qui, Michele Salvati sul Corriere della Sera): il programma attuato (dagli interventi sul lavoro al pacchetto di revisioni costituzionali alla legge elettorale) e il metodo di governo praticato (dalla marginalizzazione del parlamento alla mortificazione del dialogo sociale) indicano la deriva centrista-plebiscitaria del partito nato come alternativo al centrodestra.

In sintesi, un «partito pigliatutti», fattore di inibizione della democrazia dell’alternanza e, al contempo, potenziale generatore di una soggettività politica di sinistra, possibile evoluzione della «coalizione sociale», condannata però, come sull’altro versante la destra anti-euro, a rimanere fuori dalle funzioni di governo e attratta dalla protesta e dal populismo.

La domanda è: la tendenza descritta è frutto esclusivo o primario delle scelte di Matteo Renzi e della «sterilità delle cosiddette minoranze del Pd» oppure è trainata da dinamiche profonde, presenti nelle democrazie mature e, in particolare, nei paesi periferici dell’eurozona? In altri termini, è possibile un sistema vivificato dall’alternanza in democrazie nazionali svuotate di capacità di governo dalla globalizzazione e, nel vecchio continente, ulteriormente indebolite da una moneta senza stato?

La discussione sulle conseguenze della globalizzazione sulle democrazie nazionali è in corso da decenni. Vengono pubblicati volumi e saggi a getto continuo. Un testo illuminante è The globalization paradox di Dani Rodrik. Leonardo Paggi, nella relazione svolta alla Camera per il centenario di Pietro Ingrao scrive: «Tra il 1971 e il 1973 si compie il tramonto definitivo del sistema monetario di Bretton Woods fondato su un regime di cambi fissi e il controllo amministrativo dei flussi di capitale. Si chiude quel vantaggioso rapporto tra economie nazionali e mercato mondiale, fatto di interdipendenze ma anche di autonomia, che ha consentito il grande rilancio economico di un’Europa …. D’ora in poi masse crescenti di capitale finanziario liberamente fluttuanti sui mercati internazionali cominciano ad erodere la sovranità dello stato nazione europeo».

Per noi nell’eurozona pesa un aggravante: dato il quadro istituzionale della moneta unica e data la linea di politica economica dettata dallo Stato dominante e dagli interessi economici più forti, la politica finisce di essere terreno di scelta e diventa esecuzione dell’unica agenda possibile: svalutazione del lavoro e intrattenimento mediatico, storytelling nel senso illustrato da Christian Salmon. Vi possono essere aggiustamenti al margine dell’«europeismo ragionevole».

Vi può essere chi, per dirsi di sinistra, in contesti nazionali segnati dal conservatorismo cattolico, si dedica al campo dei diritti civili (i particolarmente smarriti invocano il matrimonio gay), capitolo fondamentale ma non distintivo della sinistra (nel Regno Unito è protagonista il tory Cameron).

Vi può essere chi si aggrappa a una qualche versione assistenzialistica e anestetizzante del reddito di cittadinanza nell’impossibilità di dare credibilità politica all’obiettivo del «lavoro di cittadinanza». Vi può essere infine chi indugia nel sempreverde prato giustizialista, nonostante l’uscita di scena di Berlusconi. Vi possono essere camuffamenti vari, ma il dato politico è evidente: nella gabbia mercantilista dell’eurozona, alternative di governo non sono praticabili.

Qui e ora, è impossibile la soggettività politica del lavoro, carattere necessario per una effettiva democrazia dell’alternanza tra visioni e programmi alternativi. Qui e ora, dove le classi medie escono spremute da trent’anni di liberismo e sono prigioniere di una deriva di impoverimento, la «Repubblica democratica fondata sul lavoro» può essere soltanto un ricordo del 900. Qui e ora, l’unica agenda di governo possibile è quella dell’establishment economico transnazionale e del sintonico interesse nazionale degli Stati creditori.

Non a caso, il Financial Times, il Wall Street Journal e i report delle grande banche d’affari utilizzano regolarmente come criterio di distinzione tra i partiti non più destra e sinistra, ma pro e anti stablishment. Non a caso, larghe fasce della sinistra politica e sociale si rassegnano al “governo tecnico”, contestuale in Italia e Grecia. Non a caso, l’eccentrico governo Syriza, scelto per un programma alternativo alle ricette della Troika, impalla il sistema e non può andare.

Insomma, in tale quadro, vi può essere soltanto un partito di governo: nella forma diffusa in Europa di grande coalizione permanente tra conservatori alla guida e socialisti a rimorchio, spompati dopo tre decenni di subalternità al pensiero unico liberista; oppure, dove non c’è una destra di sistema come in Italia, nella forma di Partito Unico della Nazione nell’involucro del Pd. In tale quadro si spiega la forza politica, mediatica e elettorale di Renzi, interprete estremo e abilissimo della rivoluzione passiva in corso, raccontata da vent’anni a sinistra come «Terza Via».

E si comprende la revisione costituzionale e elettorale finalizzata a produrre governabilità attraverso il consenso di una minoranza (in particolare, il premio per la maggioranza assoluta dei seggi al primo partito, indipendentemente dalla quota di consenso raggiunta al primo turno) poiché, declinata la società delle classi medie, la democrazia può funzionare solo su basi ristrette. In tale quadro è evidente che, oltre il Partito Unico della Nazione, esiste uno spazio naturale per posizioni populiste no-euro in versione nazionalista-forcaiola-xenofoba o confusamente anti-estalishment. Ma tale quadro, ecco la questione di fondo, si può forzare per aprire uno spazio per una sinistra non minoritaria, non testimoniale, protagonista di un’alternativa progressista di governo?

La riposta non è scontata. Anzi, le condizioni per una risposta positiva sono davvero difficili, siamo «senza il vento della storia», come scrive Franco Cassano. Che fare? Innanzitutto, va condivisa l’analisi. Altrimenti si alimenta l’illusione che sia sufficiente una scissione dal Pd e la riaggregazione di ceto politico spiaggiato per «fare l’alternativa». Oppure, risucchiati dall’anti-politica, si dà credito alla favola dell’alternativa frutto dell’autosufficienza politica della “coalizione sociale”.

Il nodo è il seguente: la ricostruzione delle condizioni per la soggettività politica del lavoro, quindi per un sistema politico di alternative reali, dipende dalla rideterminazione dei rapporti tra democrazia nazionale e poteri economici sovranazionali. La sinistra per un’alternativa di governo deve avere un programma fondamentale orientato a una radicale ridefinizione del rapporto con l’Unione europea.

Certo, possiamo continuare a declamare l’Europa del dover essere e gli Stati Uniti d’Europa, ciechi di fronte alla realtà politica e economica e alla divergenza sempre più ampia delle opinioni pubbliche nazionali. Certo, possiamo sperare in una miracolosa conversione degli interessi più forti, nazionali e di classe, dal comando miope all’egemonia. Purtroppo però, non è così. Allora, è ineludibile affrontare la radicale contraddizione, ben illustrata da Vladimiro Giacchè (www.ideecontroluce.it), tra l’ordine costituzionale dell’eurozona, retto dalla cultura della stabilità dei prezzi e dalla svalutazione del lavoro, e la nostra Costituzione, come e più della altre costituzioni post-belliche, orientata dal principio della democrazia fondata sul lavoro.

Ecco la sfida storica di fronte alla sinistra in cerca, in Italia e in Europa, di un’alternativa di governo.