«Possedere è distruggere» diceva Pasolini nell’intervista a Furio Colombo rilasciata per l’uscita di Salò, che diventerà il suo ultimo film, messo sotto sequestro dai censori italiani, con processo al produttore Grimaldi, gridando allo scandalo e all’offesa alla morale. Pasolini intanto era morto ammazzato una notte sul litorale romano, e non poteva replicare ma forse quanto aveva da dire lo aveva detto già, nel film e negli scritti e nelle sue «provocazioni critiche» sulle categorie del mondo, estetica, morale, politica, desiderio che attraversano l’intera sua opera.

Anche Abel Ferrara è un regista che fa dell’intelligenza provocazione – basta pensare al geniale Welcome to New York, sul caso Strauss Kahn, rifiutato in concorso allo scorso Festival di Cannes nei suoi vertici troppo spaventato solo dalle reazioni di famiglia e benpensanti. E a questo Pasolini, tra i titoli più attesi all’ultima Mostra di Venezia, dove ha diviso radicalmente, appasionati sostenitori e acerrimi detrattori, come capita ormai di rado cosa che è una (ottima) ragione in più per non perderlo.

La figura di Pasolini, e non solo in Italia, è divenuta nel tempo un mito e persino un monumento forse (per lo più) in senso contrario a ciò che lui avrebbe voluto. Ed invece Ferrara che ha scritto la sceneggiatura insieme a Maurizio Braucci, elimina radicalmente l’agiografia pasoliniana senza però «tradire» la fedeltà ai luoghi della sua opera, al suo universo intimo, alle figure che appartengono al suo quotidiano di giorno e di notte, ai suoi conflitti, alle sue intuizioni.

«Volevo raccontare la vita di Pasolini e non la sua morte», ha detto il regista di Fratelli. Che in questa dissonante partitura di anarchia e precisione (orchestrata dall’ottimo montaggio di Fabio Nunziata), in cui Merola sfuma nella voce della Callas, segue una manciata di giorni prima della morte di Pasolini, rovesciando la «realtà» della ricostruzione nelle intuizioni di Petrolio, il nuovo libro a cui stava lavorando, tra lo smascheramento caustico dei salotti borghesi che vi balenano come in un sogno oscuro di corruzione e poteri, e le notti barocche che sfumano nei bar di angeli caduti.

pasolini

Gli occhi dei ragazzetti coi giubbini e i pantaloni stretti sul culo dietro ai quali corre allucinato Carlo, il personaggio di Petrolio, che lo stessoPasolini definisce «ripugnante», in cerca di un pompino «proibito». E l’ultima sera del poeta, quel novembre del 1975, prima di essere ucciso sulla spiaggia di Ostia, tra Pommidoro, il ristorante a San Lorenzo dove era di casa, – il proprietario ne conserva ancora l’assegno – e il Biondo Tevere, dove offrì la cena a Pino Pelosi, il giovanissimo meccanico a cui i soldi non bastavano mai.

Ferrara come il Martone de Il giovane favoloso la «corrispondenza» la cerca più che nei documenti (peraltro studiati con estrema accuratezza) nella parola poetica pasoliniana, e da qui costruisce il suo «personaggio» che è Pasolini ma sono anche i protagonisti del suo mondo poetico. Salò e Petrolio, dunque, e il PornoTeo Kolossal, il film mai girato a cui prova a dare un’immagine saltando il tempo, passato e presente, nel corpo pasoliniano di Ninetto Davoli che interpreta Epifanio, il ruolo per il quale Pasolini aveva pensato nel progetto di Porno Teo Kolossal a Eduardo, che insieme a Riccardo Scamarcio, nei panni invece di Ninetto giovane insegue la cometa per scoprire che il Paradiso non esiste e la fine non c’è.

Le tracce pasoliniane affiorano sul volto di Adriana Asti, meravigliosa icona del desiderio in Prima della rivoluzione, dell’amico e «pupillo» di Pasolini Bernardo Bertolucci, nelle lettere che il poeta scrive agli amici cercando di illuminare la sua nuova opera. E nella violenza di un’epoca, col suo bisogno di rivolta, che esplode nel nostro Paese, dominato ancora dai segni di un fascismo virile e macho.

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Tra i tasti della sua lettera 22, e nel sesso, che è «sempre politico», con una scena di orgia davanti alla quale arrivano Ninetto e Epifanio, nel cortile di una Roma misteriosa dove si affrontano i gladiatori maschi e femmine a colpi di «cazzo vaffanculo» «figa vaffanculo».La casa, le camicie, la macchina, l’agenda di Pasolini sono ricostruiti invece con estrema precisione, come le sue giornate di pubblico e privato, il momento sereno di un pranzo insieme alle persone amate, la madre, il cugino Nico Naldini (Valerio Mastrandrea), Grazia (Giada Colagrande), l’amica amatissima Laura Betti che arriva dal set di Jancso e ride con la grazia di Maria De Medeiros mentre racconta come ha insegnato alle attrici comuniste a fare l’amore sul set.

Forse per questo il Pasolini di Ferrara appare straniato rispetto all’immagine dominante che lo racchiude, alle «teorie del complotto» intorno alla sua morte che avviene qui per soldi, per rabbia, per quel cinismo proletario sfrontato e implacabile che punteggiava le sue corse in automobile notturne, e quelle dei suoi personaggi.
Pasolini è un incredibile Willem Dafoe (nella versione italiana con la voce di Fabrizio Gifuni, mentre De Medeiros avrà la voce di Chiara Caselli) inspiegabilmente ignorato dalla giuria veneziana – che gli ha preferito l’anodino Adam Driver – se non pensando che anche oggi, a distanza di decenni, tutto ciò che rifiuta di compiacere le aspettative, come fa Ferrara con questo film, viene respinto.

Dafoe inventa una iconografia pasoliniana, amoroso e mai predicatorio nelle sue affermazioni che scorticano i sistemi sociali, i moralismi, il pensiero come luogo comune. «Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere, rifiutare di essere scandalizzati è moralista» dice Pasolini/Dafoe in un’intervista in Francia per l’uscita di Salò che apre il film. Ma lo scandalo in sé non significa nulla se non è un gesto estetico e politico, e in questo senso il Pasolini ferrariano è un film fortemente politico, non nel senso di «impegno» o di denuncia, di svolgimento dei «grandi temi» della cronaca o dell’attualità con cui oggi sembra coincidere l’idea di un’immagine politica. Lo è per il sentimento di viscerale libertà che lo attraversa, e per quel suo sguardo commuovente sul cinema, e forse su di noi o su se stesso, che non può essere più come un tempo.

Nell’interrogare il personaggio Pasolini Ferrara interroga la sostanza profonda di ogni gesto artistico a partire da quella relazione di arte e vita difficilissima e ambigua, che ha bisogno di un equilibrio perfetto, e rivendica una presa di posizione: correre rischi, esporsi.

«Essere vivo è per me fare film», dice ancora Dafoe/Pasolini in uno dei momenti più sentiti del film, laddove si avverte più esplicita l’affinità con l’autore. Ferrara però non «fa» Pasolini, piuttosto lo moltiplica nei frammenti dei testi, in una narrazione non lineare, in cui l’immagine non asseconda una storia ma ne contiene infinite.

Il suo Pasolini somiglia al protagonista (anche lì era Dafoe) del magnifico suo precedente 4:44 The Last Day on the Earth, come lui vive il suo ultimo giorno sulla terra affrontando consapevole l’apocalisse. I rischi di arte e vita che sono quelli dell’intellettuale, dell’artista rispetto al conformismo del proprio tempo. E in questo corpo a corpo personalissimo Ferrara, con l’umiltà rispettosa della distanza, che è passione e mai identificazione, ci restituisce l’essenza di Pasolini, la sostanza destabilizzante di un pensiero che non cessa di interrogare il gesto artistico, per questo attuale e inclassificabile.