In fondo, Mario Dondero non ha mai tradito il suo primo sogno, quello di diventare un marinaio. Della gente che va per mare, ha mantenuto intatta la curiosità e l’attitudine al vagabondaggio «visivo», quel continuo spostarsi dello sguardo dall’orizzonte al dettaglio più vicino. E, come i marinai, ha attraversato tutta la vita con un bagaglio leggero: neanche le sue stesse fotografie meritavano un trattamento di favore. Non le ha classificate, tanto meno archiviate («non ho fotografato Sartre o Foucault per creare un fondo di magazzino», diceva).

Centinaia e centinaia i rullini scattati e mai sviluppati. Dentro quelle pellicole misteriose c’è intrappolata la Storia grande e quella piccola, soprattutto una galleria imponente di ritratti, una geografia sentimentale di volti e corpi che Dondero ha trattenuto tra il buio e la luce. Per lui la fotografia ha rappresentato l’unico mezzo di trasporto nel mondo, più degli innumerevoli aerei e treni che spesso ha preso. Ogni immagine, poi, era una testimonianza letteraria: non solo quando immortalava il volto degli scrittori del Nouveau Roman o Samuel Beckett o Pasolini e Moravia. Lo era perché veniva fuori da sue reminiscenze di racconti, di romanzi divorati, di pagine sfogliate, di autori amati. Il proprio sguardo, Mario lo inventava così, immergendolo tra gli antieroi di Hemingway o anche nel senso disordinatamente tragico di un artista come Bacon, o ancora nell’impalpabilità di un Giacometti.

Nato a Milano nel 1928, Mario Dondero, ex giovane partigiano nella Val d’Ossola, all’inizio fu un cronista: setacciava la realtà con la parola scritta. Poi, stufo di dover chiedere sempre a qualche reporter di accompagnarlo, prese una Leica e cominciò a far da sé. Frequentatore incallito del bar Giamaica (dove sedevano intellettuali e fotografi come Berengo Gardin, Uliano Lucas e Alfa Castaldi), poi parigino d’adozione, Dondero ha costruito il suo «percorso empirico» nel mestiere a partire dalle persone che incontrava, ascoltava, seguiva. Per questa non distanza frapposta fra sé e il soggetto è stato un ritrattista formidabile. Negli anni ’50, ha lavorato per L’Avanti, L’Unità, Le Ore, poi lo farà per L’Espresso, L’Illustrazione Italiana, Il manifesto. In Francia, ha collaborato con Le Monde, Le Nouvel Observateur e Regards, la leggendaria rivista che pubblicò per prima le fotografie di Capa e di Gerda Taro

Flâneur tra più mondi, politicamente schieratissimo a sinistra come comunista (scelta rivendicata, anzi resa programmatica dell’esser fotografo) è stato sempre al posto giusto al momento giusto: i suoi scatti hanno raccontato la guerra d’Algeria, i colonnelli in Grecia, i Khmer rossi, la Parigi sessantottina e di Sartre, la Russia post sovietica in un libro densissimo, I rifugi di Lenin, «scritto» insieme a Astrit Dakli, slavista del manifesto. Il digitale? Non gli apparteneva per generazione, ma non lo ha mai odiato: lo trovava democratico. E negli ultimi tempi, lo ha anche praticato. Fino allo scorso aprile, le sue immagini più belle si stagliavano sulle pareti antiche delle Terme di Diocleziano, a Roma.

L’ultimo saluto a Mario Dondero sarà mercoledì 16, alle 14 e 30 nel Palazzo dei Priori di Fermo.

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