Millecento pagine di testo compatto rappresentano già una dichiarazione di intenti: Hanya Yanagihara, nata in California nel 1974, non teme le sfide e con il suo Una vita come tante, (traduzione di Luca Briasco, Sellerio, pp. 1094) cerca un pubblico coraggioso. Altri libri fluviali hanno scandito la letteratura americana degli ultimi vent’anni, da Infinite Jest di David Foster Wallace e Underworld di Don deLillo, fino al trionfale Cardellino di Donna Tartt, ma chi ha amato la vertigine enciclopedica regalata della prosa di Wallace, gli affreschi culturali di DeLillo o gli incastri narrativi di Tartt sarà forse sorpreso da un uso del linguaggio e dall’impianto formale di questo nuovo romanzo, che sembra guardare al tardo Ottocento più che alla prosa contemporanea.
A dispetto del titolo, infatti, Una vita come tante è un feuilleton postmoderno che mescola archetipi gotici e melodramma per raccontare le esistenze del tutto straordinarie di quattro amici che, nel corso di più di trent’anni, riescono a realizzare ogni ambizione professionale, oltre a rimanere l’uno per l’altro una fonte di conforto e dedizione.

La piccola comunità maschile creata da Yanagihara ruota intorno a Jude St.Francis, il più riservato della compagnia: sensibile e solitario, Jude cammina con le stampelle a causa di un incidente d’auto ed elude sistematicamente ogni domanda sul suo passato, a nascondere un segreto drammatico: orfano molestato dai preti del monastero cui venne affidato e in seguito rapito, si ritrovò costretto a prostituirsi. Il contrasto tra i primi tragici anni della vita di Jude e la fortuna che lo accompagna negli incontri successivi è radicale: ottiene una borsa di studio per un’università prestigiosa, intraprende una carriera legale folgorante e si trova circondato dall’affetto costante di amici, medici e insegnanti (un suo ex docente universitario decide di adottarlo e nominarlo suo erede).

La sua parabola, ma qua e là anche altre situazioni del romanzo, danno l’impressione che un personaggio di JT Leroy si sia intrecciato con una camparsa del Gruppo, l’opera di Mary McCarthy cui Una vita come tante viene spesso, e correttamente, accostato. Il trauma subito da Jude e le sue conseguenze di lunga durata (l’autolesionismo, la depressione) con il passare dei capitoli fanno scomparire la dimensione corale che caratterizza la prima parte del romanzo, mentre gli altri protagonisti – Willem, l’attore, Malcolm l’architetto e JB l’artista – scivolano sullo sfondo.

Il quartetto è formato da due neri e due bianchi, un milionario e tre (inizialmente) squattrinati, e prevede una sessualità ormai serenamente queer per (quasi) tutti, che alternano relazioni eterosessuali a passioni gay, proponendo più volte nel romanzo le questione di una identità incerta: «Spesso gli capitava di pensare che essere gay (per quanto non potesse sopportare l’idea: l’omosessualità, proprio come la razza, gli sembrava un appannaggio del college, un’identità da indossare per un periodo, prima di approdare in territori molto più adeguati e pratici) fosse una prospettiva attraente soprattutto per gli aspetti accessori, dalle opinioni politiche alle cause da far proprie, all’atteggiamento da esteta».

Una vita come tante arriva in Italia dopo aver ricevuto una cospicua serie di riconoscimenti: nel 2015 è stato finalista al Booker Prize e al National Book Award, ed è stato selezionato tra i libri dell’anno dal New York Times, e proprio questo successo internazionale ha indotto l’editore a proporne la impervia traduzione a uno degli americanisti più noti e apprezzati, Luca Briasco, che dona a Una vita come tante la possibilità di conservare in italiano la forza fluviale dell’originale, trascinando chi legge nelle «piccole vite» dei quattro personaggi principali.

La narrazione alterna i punti di vista dei protagonisti, secondo un modello che nella narrativa statunitense degli autori nati dopo il 1960 rasenta l’ortodossia. A differenza di quello che spesso accade nel realismo facondo che ha soppiantato le metanarrazioni postmoderne, Una vita come tante non lascia spazio al ritratto sociale. Nei decenni di storia condivisa dei personaggi non compaiono crisi economiche, attacchi terroristici o innovazioni tecnologiche: tutto lo spazio narrativo è occupato dai personaggi e dai loro incontri, discussioni, feste, imprese professionali, relazioni sentimentali, e solo grazie ad alcuni riferimenti marginali possiamo ipotizzare che i quattro siano nati intorno al 1960 (anche se questo collocherebbe la conclusione del romanzo intorno al 2025).
Fuori dalla storia, fuori dalle gabbie dell’identità: questa forse l’ambizione che Yanagihara consegna ai suoi eroi. Malcolm si sente post-nero e post-gay (dopo il coming out in famiglia si innamora di una donna e la sposa), Willem è eterosessuale ma si innamora di Jude, JB è nero, haitiano e gay, ma è a Jude che il romanzo assegna il ruolo esemplare, esplicitato in una delle lunghe discussioni filosofiche serali dei giorni del college: «Non puoi semplicemente decidere che sei post-black, Malcolm» disse allora JB. «E poi, tanto per cominciare, devi essere stato nero per andare oltre l’essere nero». E in un altro passaggio: «… qui: non lo vediamo mai con nessuno, non sappiamo di che razza sia, non sappiamo niente di lui. Post-sessuale, post-razziale, post-identità, post-passato… Jude il Post-Uomo».
Post-uomo, forse, ma di certo latore di un messaggio antitetico a quello di tanti dei romanzi gay pubblicati sull’onda della nuova visibilità degli anni settanta: all’ottimismo e all’euforia della liberazione, Yanagihara contrappone, secondo alcuni recensori entusiasti, una malinconia queer che ci invita a non distogliere lo sguardo dal lato oscuro della sessualità. Jude St.Francis crea disordine perché tace sulla sua storia, nega il passato e con esso il futuro, rende impossibile definire appartenenze e predilezioni che permetterebbero di conoscerlo, ed è in questa sottrazione che Jude crea con i lettori una complicità delicata e quasi ipnotica.