Prima di guadagnarsi l’appellativo di Modfather, prima degli Style Council, prima di Stanley Road, prima di diventare l’icona di un’Inghilterra che ha saputo raccontare per oltre tre decenni, prima di tutto ciò Paul Weller era John William, un giovane del Surrey, che sognava Londra e i Beatles e che mai si sarebbe immaginato di trovarsi quarant’anni dopo a presentare il suo ultimo disco solista, Saturn Pattern all’undicesimo piano di un grattacielo di Milano. E nel suo ultimo album ritorna ancora quel suo primo amore, la Londra di In the City, singolo di debutto di Weller e i suoi The Jam datato 1977, diversa eppure uguale da quella che ritrova in These City Streets nella traccia di chiusura del nuovo lavoro «stavo sicuramente pensando a Londra quando L’ho scritta. Credo ancora sia la più bella città del mondo», la sua Londra, quel West End di fine anni Settanta in cui è arrivato da diciottenne, «in un piccolo appartamento vicino a Baker Street: dietro l’angolo c’era la boutique dei Beatles». «All’epoca – ricorda – ovunque andassi in città c’era un riferimento storico per me. Tutto iniziava e si propagava da lì quando ero ragazzo, la musica, la moda… Arrivando da un paese molto piccolo per me era una sensazione di estrema libertà, potevo fare quello che volevo. Londra non mi ha mai stancato, è un posto magico, mi ci sono allontanato per qualche tempo nei ’90, ma ero tristissimo e dopo non molto sono ritornato».

Nelle sue parole sembrano riecheggiare altre, più antiche, «Quando un uomo è stanco di Londra è stanco della vita» un celebre passaggio di Samuel Johnson di tre secoli prima, ma ancora attuale per Weller, «anche se quello che potrei dire nelle mie canzoni di oggi riguardo alla situazione politica del paese non è molto diverso da quello che potevo dire trent’anni fa. Certo il popolo inglese è migliore, siamo molto diversi, c’è più integrazione e meno razzismo, ma il sistema politico è peggiorato: il senso di unità che legava la classe operaia è morto, smantellato dalla Thatcher negli anni Ottanta e oggi abbiamo ancora i suoi eredi al governo. Mi ha strappato un riso amaro vedere David Cameron ai funerali di Nelson Mandela, che gesto ipocrita da parte di un ex studente conservatore del college di Eton, che inneggiava contro i movimenti anti-apartheid in Sud Africa definendoli terroristi».
E mentre tutto cambia e niente cambia, Paul Weller oggi può finalmente affermare di «essere nient’altro che me stesso», di trovarsi esattamente «dove avrei dovuto», come recita il titolo della sua I’m where I should be, in cui scrive di aver realizzato il suo scopo nel mondo dopo 55 anni «ho impiegato tanto tempo a capire quale fosse la mia vera pelle. Non so se questo dipenda dall’età o dall’aver incontrato la persona giusta. Ci sono degli aspetti positivi nell’invecchiare: non me ne frega più niente dell’opinione degli altri e mi comporto solo come mi va», nessun vincolo, né etichetta nella vita come nella musica: «non ho pregiudizi su quello che sto per fare quando vado in studio – spiega – ascolto molti generi musicali, vedo tutto come un’unica cosa», tant’è che le chitarre di alcuni suoi brani come White Sky e Saturn Pattern richiamano sonorità metal. «Ormai abbiamo cinquanta, quasi sessant’anni di musica pop e rock su cui riflettere, direi che non mi colpisce più lo stile, quando la grandezza del musicista».

Non conta nemmeno lanagrafe visto che nel suo Saturn Pattern, a tre anni da Sonic Kicks numero uno nella hit inglese nel 2012, compare anche Josh McClorey voce e chitarrista degli irlandesi Strypes, che compirà vent’anni solo il prossimo settembre. Con lui nei Black Barn Studios nel Surrey al lavoro sull’ultimo disco di Paul Weller anche Steve Brookes, chitarrista che insieme al batterista Rick Buckler e al bassista Bruce Foxton è stato con lui il nucleo originale dei Jam, nato tra i banchi di scuola. «Non saprei dire se in tutti questi anni abbia mai precorso i tempi con la mia musica, spero di essere almeno riuscito a rifletterli come penso dovrebbe fare l’arte di qualità».
Nel sound di Weller i Beatles fanno spesso capolino…«loro hanno inventato e cambiato tutto: sono un riferimento costante per generazioni di artisti inglesi e non solo. Prima c’erano altri gruppi, ma sono stati loro a proporre un’idea di band diversa. Da ragazzo aspettavo ogni loro album con curiosità perché ero certo che avrebbero fatto qualcosa di speciale». Ora è più difficile trovare band che abbiano questa forza e presa sul presente: «perché il rock non riflette più il mood generale? Non lo so. Forse quando ero giovane i ragazzi trovavano interessanti la musica, la moda e il calcio mentre oggi ci sono troppe cose da seguire e si perdono. Nonostante tutto se vedo una band che mi piace resto ancora colpito, come gli scozzesi Young Fathers», vincitori con il loro rap album Dead del Mercury Prize nel 2014. Chissà se riusciranno i tre a raccontare la loro generazione, come fece Townshend e i suoi Who con My Generation, il pezzo che folgorò il giovanissimo Paul Weller, prima di diventare The Modfather, il padrino dei mods inglesi, a cui Antonio Tony Face Bacciocchi, ha dedicato la biografia L’uomo cangiante (Volo Libero, 2015).