Stare sull’isola è una questione ardua: da una parte l’estremo isolamento dalla terraferma concede alla mente di librarsi sentendosi finalmente senza orpelli o ancore; dall’altra la paura che deriva da tutta questa libertà può rivelarsi, in opposizione, catena, ormeggio verso l’abisso, paranoia assoluta rispetto a eventuali emergenze imprevedibili. Un amico, che vedo di striscio al bar nella stradina affollata all’ora dell’aperitivo, mi dice che sull’altra isola, quella di fronte, pedonale, senza farmacia né guardia medica, sono in 60 in questo medesimo momento a fare l’aperitivo: via dalla pazza folla.

A me già questa va quasi un poco stretta. Qualche tempo fa, prima di partire, un’amica amante di isole minori mi ha raccontato la credenza che sulle isole le donne abitanti siano tutte pazze. Lo sguardo con brilluccichio stregonesco della mia padrona di casa tenderebbe a confermare questa fatata ipotesi. Mi ricordo di essere incappata qualche tempo fa in un video curioso che ora ricerco, osservo per la seconda volta e da cui vengo rapita… Lo vedo dall’alto, come ci passassi sopra esplorando una caletta nascosta. Composizione di corpi come un caleidoscopio. I suoni allitterati di un dialetto che non afferro al volo, più importanti del significato e del senso. Perdersi. Come solo l’acqua e le note sanno produrre nell’essere umano (forse pure in quelli animali).

Quindici persone tra uomini e donne sono a mollo nel mare a cantare. Un semicerchio umano galleggiante di fronte ad una sirenetta alla Hans Christian Andersen che con le mani in aria dà indicazioni di volo verbale. Il canto rapisce il cuore ma l’incanto è diffuso all’aere, allo specchio dei volti nella superficie riflettente, al cielo sovrastante, primo spettatore sorridente di quelle parole ritmate. Una scena che sa di antico, di pagano, di radice magica come se la salinità, l’irruenza, l’imprevedibilità del fondo marino potesse riverberarsi nei corpi dei cantanti e donare loro la poesia angelica di voci rigeneranti.

 

Vorrei immediatamente tuffarmi e raggiungerli, nuotare veloce con le gambe sotto per galleggiare come un giocatore di pallanuoto e, a pelo d’acqua, ergermi tra tritoni e sirene, queste maestà regali, e divenire in un battito di ciglia più brava di Maria Callas. Invece sono stonata, cambio tono durante la stessa frase anche solo cantando «Pezzi di vetro» di De Gregori la sera addormentando mio figlio (alla fine infatti mi son settata su tre pezzi monotoni che mi vengon bene – oppure: mio figlio è ancora troppo giovane, o troppo indulgente, dal correggere la madre lanciata in operazione affettuosa non proprio nelle sue corde), non ho nessun futuro nel mondo della musica: ancor di più, infatti, ammiro come davanti ad un miracolo coloro che possiedono il dono del bel canto. Estatica osservo questo breve video della performance e viaggio con l’amabile suono
Sarà che sono anch’io su un isolotto in mezzo al mare, sarà perché l’acqua è il mio elemento (sono dei pesci), sarà perché quando vedo una cosa bella me ne abbevero assetata, ma per due minuti ho davvero viaggiato nel tempo e nello spazio (Chi sono ora e dove? Con chi? Ho perso il senno, l’orientamento, la favella e l’onore: son pronta a gettarmi nuda tra le braccia di Nettuno e non tornare più indietro. Ciao).
(Burnogualà – Large Vocal ensemble – Maria Pia de Vito – Acque di Ventotene, Festival rumori nell’isola. Il brano del video è «O Lucia, miau,miau» di Orlando di Lasso)

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