«Si cambia la legge elettorale. E se non ci si riesce si vota. Il prima possibile. Questo è l’obiettivo. E ovviamente vorremmo votare con un’altra legge elettorale». Matteo Orfini, ospite di Porta a Porta, ribadisce la linea renziana confermata dal voto dell’assemblea dem di domenica scorsa. Al voto presto, dice anche il ministro Andrea Orlando: «Occorre tenere conto che questa era una legislatura costituente e la sconfitta al referendum l’ha oggettivamente interrotta». Già circola la data possibile, l’11 giugno. A quel punto, anche se non fosse approvata una legge elettorale, si andrebbe al voto sciogliendo le camere i primi di aprile, subito dopo le celebrazioni del60esimo anniversario dei trattati di Roma. E alla riunione del G7 di Tormina, il 26 e il 27 maggio, andrebbe un governo in scadenza, anzi ormai agli sgoccioli.
In realtà sono in pochi a credere a questa road map, che pure domenica è stata data per acquisita, almeno a parole. Presuppone un parlamento pronto ad autoaffondarsi. E una discreta vocazione al martirio da parte del Pd, non solo dei suoi onorevoli: si dovrebbe disporre alla terza bastonata a cadenza semestrale , dopo le amministrative di giugno e il referendum di dicembre.
La minoranza Pd è scettica. «Che faranno, manderanno i deputati a firmare le dimissioni dal notaio», ironizza Nico Stumpo. L’allusione è a come a Roma è stata dimissionata la giunta Marino, e a quello che è successo dopo al Pd. Ovvero il disastro.

Nonostante gli affondi degli ultrà renziani, i bersaniani si dispongono a un lavoro di lunga lena per azzoppare Renzi. Il ritorno al congresso a scadenza naturale sposta dalla scena Roberto Speranza, dopo un solo giorno di corsa da aspirante segretario. Il dibattito congressuale per ora è sterilizzato, il problema di un candidato alternativo si porrà in caso di primarie per la premiership.
Intanto la minoranza lavora sul tavolo del nuovo centrosinistra, puntando sul ritorno al Mattarellum. Dopo l’assemblea di area, sabato scorso, e prima di quella dell’Ergife, nella mattinata di domenica Speranza ha raccolto gli applausi di una platea di non Pd: quella dell’Acquario di Roma, centinaia di persone radunate da Smeriglio e Ferrara, di Sinistra italiana coté dialogante, conclusa dal giovane Marco Furfaro. Presente e ampiamente omaggiato anche il presidente della Regione Lazio Zingaretti. Un’assemblea ’sorella’ si è svolta ieri a Bologna. La conclusione politica è che c’è un’area che tenta di mettere in piedi un dialogo – chi puntando sulla fine di Renzi, chi invece sulla sua riconferma, come l’ex sindaco Pisapia – per un nuovo centrosinistra. Un’opzione che al momento è ancora dentro il percorso fondativo di Sinistra italiana «sempreché ce ne siano le condizioni», spiegano.
Si riferiscono alla nuova creatura di Vendola, tornato in campo, alla quale si è riavvicinato anche l’ex segretario Cgil (ed ex Pd) Sergio Cofferati. Ma le condizioni hanno anche a che vedere con quello che succederà nel Pd in questi mesi.
E qui entrano in gioco le correnti dem che hanno convinto Renzi a frenare la sua corsa verso la resa dei conti interna. Quello che viene definito «l’asse Franceschini-Orlando», i due ministri che da posizioni politiche diverse hanno consigliato il segretario di affrontare con maturità il passaggio della sconfitta. Orlando, in un’intervista al Corriere, non ha escluso una sua corsa futura («stiamo iniziando dalla fine») ma ha escludo una corsa a nome di una sola corrente: «Se Renzi non ce la fa da solo, dubito che possano farcela i singoli sfidanti». Quello che serve a un eventuale sfidante è appunto, è il fattore tempo.

Renzi intanto ha assicurato che cambierà stile di direzione del partito. Domani riunirà i segretari provinciali per ricominciare a parlare con «i territori» e soprattutto per organizzare la manifestazione nazionale di fine gennaio (il 21, casuale coincidenza con la data di nascita del Pci). Presto metterà mano alla sua segreteria, che da mesi non si riunisce nell’indifferenza e nella rassegnazione di tutto il partito, non solo degli sbiaditi componenti dell’organismo.
Il punto è capire se il cambio di passo, costringendolo in qualche modo a cambiare la natura della sua leadership, servirà davvero a fargli serrare i ranghi prima del voto. O se invece non si rivelerà l’arma migliore per logorarne la già ammaccata forza. Anche se la più tranquilla.