La vergogna degli «impresentabili», su cui bene ha fatto Rosy Bindi ad intervenire (eccome, le obiezioni non tengono proprio), equivale alla parola «Fine» (del Pd). Infatti, del Partito democratico nato nel 2007 non è rimasto pressoché nulla. Il Pd, nell’ultima stagione, è cambiato – in peggio – almeno tre volte. La linea politica, innanzitutto. E’ difficile raffrontare i due Pd: quello delle origini e l’attuale. E’ fin troppo evidente che quell’ipotesi (ricca di speranze e di attese) non è riuscita, per svariate ragioni, a partire dalla scelta di considerare l’attracco con il Nuovo fonte di moderatismo piuttosto che del rilancio di una sinistra moderna.

Un lento, inesorabile logoramento, fino al cedimento. Matteo Renzi ha avuto gioco facile a scalare un corpo profondamente indebolito, tenendo inizialmente coperte le intenzioni reali. Anzi. L’urgenza di rinnovare è diventata un brand pubblicitario, con lo slogan della rottamazione; la necessità del cambiamento ha imboccato la strada delle «riforme». In verità, da lì a poco, il così nobile termine si sarebbe capovolto semanticamente nel suo contrario: in una concreta pratica controriformatrice. Gli esempi si sprecano: dallo Sblocca Italia con lo slabbramento delle regole; al Jobs Act e allo sdoganamento dei licenziamenti; alla revisione della Costituzione con la riduzione del Senato ad organo ad elezione indiretta; all’Italicum con un premio di maggioranza mai visto; al pasticcio sulla Rai sospinta nelle braccia del Governo; alla cosiddetta Buona scuola, vera ferita inferta al lavoro intellettuale.

C’è un filo tra tutte queste misure: lo spostamento netto del baricentro dai ceti sfruttati nel corpo, nel fisico e nella mente ai settori di una borghesia e di una piccola borghesia rampanti, condizionati da un capitalismo finanziario e speculativo. Insomma, nel renzismo alberga un richiamo della foresta, all’incirca lo stesso – mutatis mutandis – del primo berlusconismo. Senza le punte e le patologie dell’ex Cavaliere. La citatissima disintermediazione, vale a dire l’attacco ai corpi intermedi ( sindacali, sociali, professionali) è, in verità, la subalternità ai rapporti di forza nel frattempo maturati in Italia. In nome di una dittatura dell’immediatezza che ha preso il sopravvento, amplificata dai mille talk show. Con la copertura della retorica dei tweet, usati come momenti di personalizzazione consensuale delle scelte e non come strumenti di coinvolgimento partecipativo. Il «Partito della nazione» è, dunque, un centro moderato che via via imbriglia la dialettica democratica. Non è neppure la riedizione della Dc.

Il secondo motivo per cui il Pd non è potabile è la causa e insieme l’effetto della «svolta» politica. Si tratta del cambiamento antropologico in atto nel e del corpo del Pd. Non si tratta solo di un mutamento progressivo dei soggetti che popolano i circoli e animano – quando c’è – l’attività concreta. In verità, ancora una volta la linea generale plasma pure i tratti di coloro che la sorreggono. Non tutti, ci mancherebbe. Anzi, forse ci sarebbe virtualmente una «maggioranza silenziosa» non omologata. Ma via via svanisce. Chi dissente, del resto, è etichettato come un un gufo, un residuato. Nel breve volgere di un biennio, ciò che in precedenza era solo il sintomo di una tendenza è divenuto progressivamente la realtà. E’ avvenuto un ricambio sociale e culturale che riflette ed amplifica l’impostazione della leadership. La modalità in cui avviene simile trasmigrazione è piuttosto semplice: la «linea» è delegata al livello nazionale – ristrettissimo – mentre localmente si organizzano feudi inespugnabili. Attenzione a sottovalutare le coraggiose zone di resistenza o i casi positivi valorizzati, ad esempio, dall’impegno di Fabrizio Barca. Tuttavia, è altrettanto doveroso cogliere il trend in atto, senza alibi o infingimenti.

Il terzo motivo si connette strettamente al precedente. La «questione morale» è esplosa, tragicamente facilitata dal contesto politico-organizzativo. «Mafia capitale», gli «impresentabili», i casi di coinvolgimento in vicende non commendevoli sono una patologia nient’affatto occasionale. Fino al disastro attuale.

La parte destruens è acclarata. Quella costruens è assai complessa e non prevede scorciatoie. Il disagio e l’abbandono del campo sono diventati la normalità per numerosi militanti delusi. Si inserisce qui, senza sciocche banalizzazioni, il capitolo del cosiddetto populismo, con cui ogni ipotesi di «Altra sinistra» dovrà fare i conti. Con quel termine si sono indicate dinamiche assai diverse, alcune delle quali sono genuini momenti di opposizione. Così, è urgente comprendere il territorio arato dal Mov5Stelle, che l’«aristocratica» vecchia gauche ha guardato senza coglierne la natura, essendo prevalsi schemi interpretativi logori. Insomma, si tratta di avviare un cammino, fortificato dalla definizione in fieri di un «programma fondamentale», vale a dire una visione e una strategia. Non dall’alto verso il basso, bensì in maniera aperta e coinvolgente. Dobbiamo provare a coniugare le due metà del cielo: la difesa dei diritti e l’immersione nei linguaggi di questa era, quelli digitali, protagonisti e vittime del capitalismo cognitivo.

Pippo Civati, con coraggio, ha rotto gli indugi dopo la penosa storia dell’Italicum. E proprio da lui viene il lancio dell’Associazione «Possibile», utile riferimento per settori interessati al dialogo sul «che fare». Stefano Fassina ha annunciato una scelta analoga. Sinistra, Ecologia e Libertà si è resa disponibile a stare dentro un itinerario all’altezza dei tempi. Sergio Cofferati battezza un’Associazione. Sullo sfondo sta la significativa iniziativa promossa da Maurizio Landini. Segni di avvicinamento si colgono nel tessuto delle anime della Sinistra che sono rimaste al di fuori del perimetro del Pd. Per dire, poi, di mondi associativi e di movimenti che hanno tenuto il punto su svariati argomenti, non attratti dai calcoli strumentali del ceto politico. E M5S non va rimosso. Insomma, tra il cielo e la terra ci sono più cose di quanto si supponga.

E’ doveroso, però, guardare gli avvenimenti senza preconcetti e con ritrovata passione. La ricetta si troverà sul campo, strada facendo e così si selezioneranno i gruppi dirigenti. Podemos o Syriza costituiscono riferimenti interessanti e fertili, da inquadrare nella specificità italiana. In Europa ci sono fermenti – quelli belli, contrari ai nazionalismi egoisti vogliosi solo di respingere profughi ed extracomunitari – da studiare. Sarà decisivo, a cominciare dalle prossime ore, l’atteggiamento soggettivo: umiltà e ascolto potrebbero fare la differenza.