La vicenda delle «primarie» liguri costituisce, pur non essendo certo un unicum, una sorta di Caporetto del Partito democratico. Giusta e condivisibile la scelta di andarsene di Sergio Cofferati. La sequenza ligure è un po’ come lo sguardo del reporter interpretato da James Stewart che coglie dai particolari l’omicidio ne La finestra sul cortile di Hitchcock: si intravede un corpo offeso da un delitto più o meno perfetto. La giusta scelta di Cofferati di dire addio al Pd non può rimanere isolata e, anzi, è doveroso per coloro che si sono opposti fin dall’inizio alla linea di Matteo Renzi imboccare definitivamente un’altra strada.
Del resto, la vicenda della legge elettorale, con il cambio delle alleanze consumatosi al Senato con il pieno appoggio di Forza Italia al governo, dimostra che il partito ha cambiato ormai di natura. Dunque, ulteriore spostamento brutale «di linea» ed emergenza costante della questione morale (la vicenda di mafia-capitale è già rimossa?) rendono improponibile la coesistenza – ancorché conflittuale – tra posizioni ormai lontanissime. E’ l’amara presa d’atto di un’impossibilità, al di là di ogni ragionevole dubbio. Tra l’altro, il varo del Jobs Act – volto a ridurre le tutele effettive previste per chi lavora – e l’incresciosa storia dell’abbuono fiscale per i ricchi (provvisoriamente rientrata) ci raccontano cosa è avvenuto nella fisiologia del Pd: non l’ampliamento dei riferimenti sociali, bensì il secco rovesciamento della rappresentanza. La prova evidente di simile parabola è lo scarso interesse mostrato per le partite Iva, vero e proprio «non luogo» post-moderno, dove la precarietà cerca disperatamente di affrancarsi dall’indigenza. E via di questo passo.

E’ l’essenza omologata e omologante del cosiddetto partito della Nazione, un interclassismo ideologico senza neppure la durezza delle classi in carne ed ossa. Ed è, in fondo, la verità profonda del cosiddetto patto del Nazareno, ben più di un compromesso: in verità, un vero e proprio ipertesto, uno stile di conduzione del paese. Le «larghe intese» sono assurte a modello di gestione del potere, risposta mediocre e conservativa alla crisi della politica. Di fronte all’incapacità di darsi una strategia e programmi meno proni all’egemonia liberista, il partito unico italiano ha scelto per sé la via della subalternità pura e semplice. E’ l’accettazione della irrilevanza di una politica divenuta tanto prepotente quanto impotente. Via via il quadro si è fatto chiaro e, purtroppo, non resta che immaginare spazi per poter ri-costruire un’idea di politica adeguata al tempo che stiamo vivendo.

Ecco, qui sta il punto. E’ ben ingiallita la polarità dialettica «unità-scissione». La scissione è avvenuta da mesi, basti guardare all’andamento del tesseramento. Così, l’inquinamento delle primarie toglie la speranza che la democrazia partecipativa e il coinvolgimento diretto della società nel ciclo decisionale possano essere l’antidoto delle e alle antiche patologie. L’utopia bella della prima fase del Pd. Insomma, la scelta è – innanzitutto – tra politica e non politica.
Che fare allora? E’ il momento di osare, di rompere gli indugi, di vincere il don Abbondio che alberga nelle opposizioni troppo caute. Intendiamoci. Proprio le esperienze – speriamo – positive di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna mostrano quanto sia sbagliato riproporre i calchi del passato. Neppure è lecito e produttivo rimuovere la realtà di 5Stelle, che ha raccolto molti consensi proprio nell’area della sinistra. Prima di discutere, dunque, del contenitore è indispensabile mettere a fuoco contenuti, linguaggi e culture di un nuovo soggetto: dalla Fiom al digitale. Serve una «tavola dei valori» su cui poggiare una rinnovata forma organizzativa. E serve un’idea di sinistra, non solo una sinistra purchessia. Presto, non c’è tempo.