Marisa Siddivò, docente di «Riforme economiche nella Cina contemporanea» e «Strategie di sviluppo della Cina» presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale.

Con l’elezione di Trump il quadro geopolitico sembra destinato a mutare: la Cina beneficerà di questo assetto?

Non sono in grado di definire gli scenari che si stanno aprendo con le scelte dell’amministrazione Trump. Il Tpp e tutto ciò che esso implicava in termini di presunto o presumibile ridimensionamento del ruolo della Cina nell’area, è stato oggetto di analisi e riflessioni approfondite negli ultimi anni da parte degli analisti cinesi. Nelle ultime 48 ore invece la decisione di Trump è stata riportata da tutti gli organi di stampa senza alcun commento con una sottolineatura sulle parole che Trump ha speso a proposito dell’effetto positivo che la scelta avrà per gli operai americani. Come a dire di non enfatizzare i risvolti positivi che la liquidazione del Tpp avrebbe per la Cina perché rientra in una logica protezionista che danneggerà tutti.

Quali saranno, secondo lei, le prossime mosse di Pechino?

Il governo sta tessendo da anni relazioni economiche e commerciali favorevoli con i paesi dell’area (vedi Free Trade Area of the Asia-Pacific and Regional Comprehensive Economic Partnership e si muove secondo uno schema di «liberalizzazione dei vincoli al libero commercio in cambio di investimenti infrastrutturali o di altro tipo». Suppongo che perseguirà su questa strada.

Che interpretazione ha dato alle parole di Xi a Davos?

Alla Cina è stato chiesto di diventare un «responsible stakeholder» dello scenario mondiale e la Cina sta sperimentando ogni mossa per entrare a far parte del cosiddetto Global North. Il discorso che ha fatto a Davos si inserisce in questo progetto. Se consideriamo che la Cina è il primo paese al mondo per volume di esportazioni, che è il paese che attrae maggiori investimenti nel settore manifatturiero e che è terzo per volume di investimenti in uscita, dovremmo dedurre che «ha imparato a nuotare» nel mercato mondiale ma dal dibattito interno al paese si deduce che questi dati riflettono solo parzialmente la realtà economica della Cina che percepisce il suo ruolo negli scambi internazionali ancora molto debole.

La Goldman Sachs, in un recente rapporto, ha affermato che gli squilibri economici porteranno la Cina a una crisi finanziaria. Qual è la sua opinione a riguardo?

Il tema del «collasso» riemerge a scadenze ormai regolari e quasi non fa più notizia. La Cina ha maturato un alto rapporto debito/Pil ma se viene onorato l’impegno verso una politica di ridimensionamento del credito (sintetizzato nella scelta di una politica supply-side) alle imprese dovrebbe essere sostenibile. La vera domanda è se viene davvero ridimensionato il ricorso al credito e quindi tutto il modello investment-led growth che ha caratterizzato l’ascesa economica della Cina. Ci stanno provando da un po’ di anni ma con scarsi esiti.

Un altro fronte che desta interesse è quello africano.

Negli anni scorsi sono state le materie prime a sollecitare gli investimenti e gli accordi commerciali con i paesi africani e anche oggi che si riduce la domanda di questi beni la Cina continuerà nei grandi lavori infrastrutturali e nella creazione di condizioni favorevoli a trasformare l’Africa in un mercato per i suoi manufatti. La presenza della Cina in Africa sta assumendo contorni più complessi che hanno a che fare con quel progetto di cui dicevamo prima di importante stakeholder degli assetti economici, politici e militari globali.

Di recente ha scritto un articolo pubblicato nell’ultimo numero di «Mondo Cinese», dedicato interamente al legame che intercorre tra Cina e Africa. Ce ne vuole parlare?

Ho solo riportato un frammento di un lacerante di battito che si è svolto in Cina negli ultimi anni sulle difficoltà che gli investitori cinesi (pubblici e privati) hanno incontrato nel realizzare operazioni di merging and acquisition. Noi spesso vediamo solo i dati statistici e i dati ci dicono che gli investimenti in uscita dalla Cina sono cresciuti del 16% all’anno ma la Cina ha anche registrato uno dei tassi di fallimento più alti al mondo e istituzioni da un lato e comunità imprenditoriale dall’altro si sono rimpallati le responsabilità.