Tutti lo conoscono. I meno giovani se lo ricordano per averlo visto. Lui è Pelé, venuto a Milano per promuovere il film sulla sua vita di ragazzino povero per poi diventare O Rei.

E racconta: «Io ho avuto modo di recitare diretto da John Huston accanto a Sylvester Stallone, Michael Caine, Max Von Sidow. Quando sono venuti da me per propormi un film mi sembravano matti. Un film sulla mia vita? Poi mi hanno mandato la sceneggiatura l’ho letta e mi sono commosso. Si parlava della mia infanzia e della mia famiglia. E della strada che ho fatto per arrivare a essere un giocatore».

Il racconto del film si ferma quando quel ragazzino brasiliano non ancora diciottenne diventa un fenomeno mondiale conquistando la coppa del mondo con il Brasile nel 1958 in Svezia contro la squadra di casa.

«Eravamo la nazionale brasiliana, ero matto, credevo che tutti sapessero chi eravamo, ma quando arrivammo in Svezia nessuno era interessato a noi. Anzi nelle interviste i giornalisti facevano una grande confusione sull’America Latina».

Poi però, in finale i brasiliani stroncano i marcantoni scandinavi per 5 a 2. Il terzo gol del Brasile, quello del 3 a 1 (aveva aperto le marcature Liedholm, poi due reti di Vavà) lo realizza il ragazzino e poi ne fa un altro.

«In carriera ho fatto 1.283 goal. Il più importante il millesimo, su rigore, facile mi dicevano, eppure è stata l’unica volta in cui mi sono tremate le gambe. Il più bello l’ho fatto nello stadio della Juventus di San Paolo, ho scartato quattro avversari con tre sombreri. Il secondo più bello è stato proprio quello del 3 a 1 contro la Svezia».

Così ha mantenuto anche la promessa fatta a papà quando nel ’50 il Brasile al Maracanà venne sconfitto in finale dall’Uruguay.

«Vidi mio padre piangere per quella delusione. Otto anni dopo il maracanazo era stato riscattato e il Brasile era entrato a far parte dell’elite calcistica mondiale. Anch’io ho rischiato di farmi vedere in lacrime da mio figlio, quando siamo stati umiliati dalla Germania 7 a 1 in casa. Un disastro».

Ma il suo ricordo più bello è legato alla finale messicana, 4 a 1 all’Italia. «Ero al mio ultimo mondiale, avevo una consapevolezza diversa. La mia gioia è stata grande. So che a voi dispiace, ma così è la vita. La ginga è il fattore decisivo per giocare a calcio, un atteggiamento in cui il talento prevale sulla tecnica, il piacere del gesto è dominante, dovendo scegliere solo un calciatore con queste caratteristiche dico Messi».