All’editor del suo solo libro in prosa (Un po’ di febbre, Garzanti 1973) e cioè a Giovanni Raboni capitò di chiedersi una volta: «Quand’è che Sandro Penna ha scritto le sue poesie?» Diversi fatti lo inducevano alla domanda formulata nei termini di un paradosso. Innanzitutto una produzione molto avara (tra l’esordio di Poesie, Parenti 1939, e il volume già complessivo di Tutte le poesie, Garzanti 1970, battezzato da Pier Paolo Pasolini, intercorrono soltanto rare plaquettes fra cui Croce e delizia, Longanesi 1958), una ricezione critica più che altro affidata a poeti e compagni di via (Montale, Caproni, Saba che pure pretendeva d’averlo scoperto) nonché la ritrosia di Penna medesimo a intervenire nel contenzioso letterario, lui indenne nella svagatezza di una bohème luminosa, tra marane, lungotevere e borsa nera, lui sempre renitente a formulare una poetica esplicita e sempre attento invece a cancellare qualunque traccia rimandasse ad altri o ad altro che non fosse la compiutezza di versi modulati con tale monotonia da doverli pensare, davvero, senza spazio né tempo.
Quella è vita diceva Penna, indifferente, e alludeva a ciò che Sergio Solmi, per esempio, definiva «un dono che sembra solo essere quello che è, come le cose della natura». Insomma la poesia di Penna si è offerta troppo a lungo nei modi di una eterna tautologia, quasi fosse volta a volta un getto di luce pullulante dall’interno ma oscurato all’esterno da un plenilunio silenzioso. E dunque come fosse un puro moto del desiderio (per il corpo dei ragazzi, dei giovani operai, dentro una geografia coatta tra il greto del fiume Tevere e il lido di Ostia) che fatalmente avesse limite nel proprio slancio, replicato in eterno e implacabile. Lo stereotipo di Penna era appunto quello di un poeta «greco», nativamente fuori dalla storia, e Pasolini così aveva letto Un po’ di febbre, quale il palinsesto di un paese refrattario, estraneo agli sconci del regime fascista. La parola di Penna, nel senso comune dei lettori, era un caso supremo di sincronia, un segno perfetto e impassibile, comunque incapace di sviluppo. Non è un caso che la bibliografia postuma (a partire dagli inediti di Confuso sogno, Garzanti 1980) si sia data apertamente il compito di decostruire quello stereotipo invasivo e, pertanto, di restituire la poesia di Sandro Penna a una dimensione propriamente storica. A parte la bellissima biografia di Elio Pecora (Una cheta follia, Frassinelli 1984) e la monografia primordiale, sempre utile, di Gualtiero De Santi, Penna, che uscì da La Nuova Italia nel 1982, si sono nel tempo susseguite edizioni di carteggi e di nuovi documenti insieme a contributi di più netto taglio filologico come nei casi, fra gli altri, di Daniela Marcheschi (Sandro Penna: corpo, tempo e narratività, Avagliano 2007) e di Roberto Deidier (Le parole nascoste: le carte ritrovate di Sandro Penna, Sellerio 2008) per tacere i saggi (Penna Papers, Garzanti 1984) del fuoriclasse della critica penniana, Cesare Garboli, così persuaso della storicità del poeta, sia pure e ovviamente di una storicità tutta quanta implicita e si direbbe trascendentale, da associarne la figura all’anonimato dell’uomo-massa, come se, nel qual caso, l’«omino» del desiderio greco fosse il gemello del moderno clochard Charlie Chaplin.
Ora è proprio un allievo di Garboli, Giuseppe Leonelli, a fornire un esemplare contributo di filologia ed ermeneutica, Commentario penniano Storia di una poesia (Aragno, «Biblioteca», pp. 513, euro 28.00). Come è d’uso nelle edizioni degli antichi scrittori, qui le singole poesie sono in absentia ma sono integralmente indicizzate in base al testo stabilito più affidabile (le Poesie, Garzanti 2000) e ad ogni poesia corrispondono puntuali annotazioni. Il commento è diviso in due fasce: nella prima si concentrano gli specifici (data di composizione, se riscontrabile, e di eventuale pubblicazione in periodico o in volume; impaginazione strofica e struttura metrica), nella seconda si accampano gli elementi circostanziali (fonti esplicite, richiami allusivi, la cosiddetta intertestualità) e notazioni sia d’ordine parafrastico ed esplicativo (perché Penna, a dispetto della conclamata solarità, sapeva ben dissimulare e simulare) sia d’ordine più schiettamente critico. Si tratta, e va subito detto, di un lavoro encomiabile sotto il punto di vista filologico e specialmente apprezzabile per una chiarezza espositiva che è indenne da glossolalie bibliografiche come da scorciatoie gergali. E qui valga per tutti l’esempio più vistoso, che rimanda all’incipit della parabola penniana, al moto di eruzione vera e propria che a un certo punto esplode con «La vita … è ricordarsi di un risveglio/ triste in un treno all’alba …». Pubblicata per la prima volta in «L’Italia letteraria» (n. 47, 1932) e con un titolo che non potrebbe essere più universale, Poesia, Leonelli ne rintraccia un remoto manoscritto insieme col ricordo d’autore poi affidato alla biografia di Pecora: «‘Questi versi li scrissi di notte, il 24 agosto del ’28 a Porto San Giorgio’. Il treno… era quello che da Roma in luglio lo aveva portato a Porto San Giorgio, sui margini di un giornale… Il mare era l’Adriatico», dove lo aspettava Acruto Vitali (pittore e poeta – Il tempo scorre altrove, Scheiwiller 1972 – che iniziò l’amico alla lettura di Rimbaud, insomma un penniano onorario che, sia detto per inciso, attende ancora i suoi lettori). Ma è la parola vita, la più difficile e impronunciabile, la più infetta dal virus dannunziano, a decidere tanto del prosieguo di Penna quanto della sua capacità di rimanere integro e, al limite, intatto nel mutare dello spazio-tempo. Scrive Leonelli a proposito del primo verso, l’esordio assoluto: «Si osservi la pausa provocata dai tre puntini dopo la copula. Grazie ad essa, la parola ‘vita’, così abusata non solo nel linguaggio letterario, viene isolata, rimane sospesa su una predicazione che si fa aspettare, con un effetto di riconcentrazione della sua carica semantica. Si tratta della allegoria della nascita, come pensa Garboli? Nascere è per Penna svegliarsi all’improvviso, dolorosamente, su un treno in corsa: un evento angoscioso, traumatico, di cui si serberà per sempre il ricordo. Vivere è viaggiare su un treno. E nell’immagine del treno si condensa figurativamente e si strania un ganglio doloroso dell’immaginario penniano».
E in effetti di treni, di piccoli tram, di barche a remi, di strade bianche e polverose la poesia di Sandro Penna è letteralmente costellata. In questo poeta monotono per vocazione ed elezione tutto è sempre in movimento e tutto muta di continuo come se dietro di lui o davanti a lui scorressero le immagini di un trasparente cinematografico. Città, suburbi, antiche pietre, modeste trattorie e pubblici orinatoi sono i set quotidiani di un individuo che mai per sé volle un lavoro né accettò qualifica se non quella di viaggiatore. Non è la parola di Penna fuori dalla storia ma, semmai, è la storia del suo paese ad essere talmente onusta, immobile, da sembrare un dato di natura, un reperto, o qualcosa che nel suo splendore ha del banco geologico. Perciò il passato e il presente possono coincidere nella dizione di quei versi privi di nomi propri, bianchi e verticali. Perché, se non è immobile, è però immutabile la dinamica del desiderio che per Sandro Penna è stata la sola religione: ed è per questo che noi lo sentiamo senza tempo, un classico