Hillary vince. Ma Bernie non perde. Il secondo supermartedì delle primarie conferma la leadership di Clinton nella competizione democratica, ne consolida la posizione di front runner ma non scioglie il nodo politico di fondo di questo duello, destinato ad arrivare intatto alla convention di Filadelfia, a fine luglio e a dominarne la scena.

Insomma, la corsa continua, e non solo perché è questa l’indicazione data da Bernie Sanders ai suoi sostenitori, nonostante i cinque risultati insoddisfacenti collezionati martedì in stati importanti: «Con oltre metà dei delegati ancora da scegliere e con un calendario che ci favorisce nelle settimane e nei mesi a venire, restiamo fiduciosi che la nostra campagna è sulla strada verso la conquista della nomination».

Che una simile ambizione sia più utopica che reale, lo si vedrà presto. Sarebbe davvero incredibile se si dovesse assistere addirittura a un rovesciamento dei rapporti di forza tra i due sfidanti democratici. Eppure la determinazione di Sanders va presa sul serio, e gli strateghi di Hillary, infatti, la prendono sul serio.

Certo, per recuperare lo scarto che la divide da Clinton, il senatore del Vermont dovrà conseguire vittorie rilevanti in stati come New York e la California.

Impossibile? Un politologo esperto come John Cassidy, del New Yorker, trova significativo che Predictwise, il sito che fa previsioni aggregando ed elaborando dati dei sondaggi e di borsa, abbia ridotto le probabilità di nomination per Hillary al 94 per cento. Sarà un’inezia, ma è il sintomo di quel tanto d’incertezza che incombe sulla sorte di Clinton nonostante sia stata già virtualmente incoronata dai media come candidata democratica.

Il senatore del Vermont, a dispetto degli ormai numerosi insuccessi e soprattutto dei mancati previsti successi (come l’Ohio, martedì scorso), continua a disporre di risorse che addirittura crescono e di una militanza generosa e sempre più motivata. È un movement che può contare anche su fondi ragguardevoli per quantità (venti milioni di dollari a gennaio, oltre quaranta a febbraio) e per qualità, essendo composti prevalentemente da piccole donazioni. Che è il segno dell’indipendenza del candidato «socialista» dai grandi donor e al tempo stesso dello sviluppo di un movimento che intorno a Sanders s’organizza e si struttura, potendo poggiare sulla dedizione, anche finanziaria, di tanti militanti, in tutti gli Stati Uniti.

Ed ecco, dunque, il punto politico che rende la contesa tutt’altro che conclusa, non una sfida tra due personalità (ovviamente c’è anche questo) ma un confronto tra due visioni politiche e anche tra due progetti diversi di organizzazione politica, destinati a rendere elettrica la convention di Filadelfia e a non concludersi con il voto di novembre.

È una diversità che da un lato rende inevitabile il prosieguo della corsa da parte di Sanders, anche in presenza di un duro principio di realtà che, fosse stato un altro candidato, alla luce dei risultati fin qui conseguiti, ne avrebbe già decretato l’uscita di scena; dall’altro lato, complica le manovre di travaso, anche parziale, di sostegni, appoggi e voti dal campo di Sanders a quello di Clinton.

Tra i due si dovrà pur arrivare prima o poi a una contrattazione politica, quando si dovrà stringere sulla nomination, ma questa intesa non è vicina e la contesa vedrà sicuramente un indurimento del confronto mano a mano che si andrà avanti.

Le primarie in corso, in casa democratica, sono la riprova che molti elettori non sono più disposti a votare per il minore dei mali. L’appello al voto utile non può più fare presa. La cosiddetta teoria dell’eleggibilità – electability – non funziona con molti elettori, non solo giovani. Tanto meno funziona la lesser evil theory, la teoria del minore dei mali.

Neppure un duello finale Hillary contro Trump potrebbe persuadere i sandersiani più convinti a votarla, in assenza di una piattaforma davvero condivisa e garantita da Bernie.

La resilienza di Sanders e la forte spinta dei suoi militanti che lo incitano ad andare fino in fondo sono dettati dalla convinzione che sia possibile contendere il potere ai repubblicani sulla base di un programma democratico alternativo e non con politiche e pose che somigliano a quelle degli avversari, in un’immaginaria contesa per la conquista dei voti moderati e centristi.

Socialista, Sanders ha una sua visione della sua campagna presidenziale che ne riflette la formazione politica.

Ormai è chiaro che essa è un movimento teso a ridisegnare radicalmente il Partito democratico, anche dopo le elezioni di novembre. È quello che è sempre stato rimproverato a Barack Obama, cioè di non aver trascinato con sé un rinnovamento profondo del Partito democratico, sottraendolo al controllo e all’ideologia dei Clinton.

Il mancato rinnovamento del Partito democratico fa sì che esso continui a funzionare come una machine al servizio della dinastia Clinton e dei suoi alleati, con la galassia di fondazioni e finanziatori che le fa da contorno. E proprio questo è l’establishment che i sostenitori di Sanders non sopportano, e in Hillary ne vedono insieme l’espressione e la massima rappresentante.

Anche se ci saranno ripensamenti da parte di Bernie a proseguire la corsa o sconfitte di portata tale da rimettere tutto in discussione, la convention di Filadelfia sarà comunque un vero congresso. Non si dimentichi che non sempre le convention sono le riunioni tutte coriandoli e bande musicali, con discorsi di leader e comparsate di star, una coreografia studiata per l’incoronazione del nominee.

Dietro lo spettacolo, in realtà, c’è una piattaforma da approvare, formalmente vincolante, ed è spesso, anche nelle convention più idilliache, terreno di battaglia. A Filadelfia lo sarà di sicuro.