Giulio Regeni e la sua supervisor dell’Università di Cambridge, Maha Abdelrahman, firmarono un’attestazione del rischio in cui si dichiarava che non esistevano pericoli nello svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto, sul campo.

È uno dei documenti consegnati dall’università britannica alla Procura di Roma il 22 agosto, dopo la rogatoria del 6 giugno. Dieci faldoni che contengono un fascicolo personale sulla Abdelrahman e le mail inviate e ricevute da Giulio nell’account istituzionale dell’ateneo. Mancherebbero invece dettagli sull’attività di ricerca in sé, su chi l’abbia pensata e su chi abbia fornito a Regeni i contatti usati al Cairo.

Ma è quell’attestazione del rischio ad aprire ad ovvie domande: possibile che una professoressa egiziana, che aveva subito la repressione del Cairo in passato, e un ateneo di fama internazionale (che svolge ricerche in tutto il mondo) non conoscessero i pericoli in un paese preda dei controlli capillari di servizi e polizia? Soprattutto alla luce del tema: i sindacati sono stati colonna portante della rivoluzione del 2011 e ancora oggi sono costantemente monitorati dal governo.

Intanto oggi si apre il terzo round di incontri a Roma tra i due team investigativi, italiano e egiziano, sul caso Regeni. Il procuratore generale Nabil Ahmed Sadek incontrerà il pm Pignatone oggi e domani.

Secondo il quotidiano egiziano al-Akhbar, «presenterà nuove informazioni trovate per giungere alla verità sulla morte del ricercatore». I lavori si divideranno in tre sessioni, nella speranza che i materiali portati dal Cairo siano più consistenti di quelli – poverissimi – consegnati a primavera.

L’attenzione deve rimanere alta, anche alla luce delle notizie che ogni giorno giungono dall’Egitto. Ieri un altro prigioniero è morto in carcere per mancate cure mediche: il 40enne Sobhi Orabi, professore della Al-Azhar University, arrestato a dicembre 2015 e condannato a tre anni per proteste non autorizzate, è morto per infarto.

Aveva chiesto di vedere un medico per forti dolori al petto, ma l’assistenza gli è stata negata. Un caso che si aggiunge ai 71 registrati dall’inizio dell’anno dal Nadeem Center, ong egiziana: decessi per mancanza di cure o, direttamente, per violenze dei secondini.

La settimana scorsa a perdere la vita nello stesso modo era stato Abdallah M. E, 58 anni. Lunedì 29 agosto Ahmed Kamal, studente di medicina 28enne, è stato arrestato e pestato fino a morire la sera dopo.

Le autorità smentiscono nonostante i chiari segni sul corpo, ma la famiglia Kamal non cede: «Non solo lo hanno torturato e ucciso in 24 ore – dice il padre – ma hanno macchiato la sua reputazione dicendo che è stato arrestato in una casa di prostituzione e morto mentre tentava di scappare». Su Ahmed pesava una condanna a due anni, comminata a febbraio, per proteste non autorizzate.

«Com’è possibile che mio figlio non abbia ossa rotte se è saltato dalla finestra? Aveva segni di bruciature di sigarette e elettrochoc», aggiunge il padre. Alle sue parole si aggiunge la testimonianza della sorella: quella sera Ahmed era a casa a studiare per l’esame di inglese, non in un bordello. Sarebbe dovuto partire per la Pennsylvania per uno stage in neurochirurgia. Tornata a casa qualche ora dopo, non l’ha più trovato.

Sparizione forzata, fenomeno in costante crescita. Per limitarlo, la Commissione Egiziana per i diritti e le libertà (il cui presidente, Ahmed Abdallah, consulente dei Regeni, è detenuto dal 25 aprile) ha creato una App per smartphone: I Protect invia all’istante all’associazione e a tre contatti scelti dall’utente messaggi che indicano le coordinate del luogo di detenzione, ufficiale o ufficioso.

La Commissione spera così di poter agire subito, nelle 24 ore successive all’arresto, per impedire scomparsa e sicura tortura. «L’applicazione – spiega il suo sviluppatore, anonimo – si presenta come una calcolatrice e solo l’utente può aprirla con un codice segreto». In questo modo si vuole evitare un altro diffuso fenomeno, il tentacolare spionaggio da parte dei servizi di computer e cellulari, possibile grazie a tecnologie vendute da società occidentali, anche italiane, come Hacking Team prima e Area spa oggi.

E fuori dalle carceri c’è un Egitto che tenta di sopravvivere alla crisi: «Vogliono tenerci occupati a cercare il pane, così non pensiamo ad altro. Alle proteste», dice Imad, impiegato pubblico. Ma il terremoto vero, quello che può ribaltare l’ultimo regime, arriverà dalla povertà. Pane e libertà, gridavano milioni di egiziani in piazza Tahrir, e da allora la situazione non è che peggiorata: l’attuale violenza politica e sociale è insostenibile.