Mancano 87 giorni, e 43 mila firme su change.org, per chiedere al Parlamento una rapida discussione e approvazione di una legge sul «reddito minimo o di cittadinanza». «Una misura necessaria, contro povertà e mafie» sostengono le associazioni promotrici: Libera di Don Ciotti, il basic income network-italia e il Cilap. A questa campagna ha aderito anche la Fiom di Landini. Per tutta la giornata di oggi è previsto un «tweet-bombing» ai capigruppo di Camera e Senato, oltre che sul pluribersagliato account twitter del presidente del Consiglio Matteo Renzi. I materiali della campagna possono essere scaricati da questo sito web. Ad oggi le firme raccolte sono 57 mila. L’obiettivo è raggiungerne 100 mila in 100 giorni.

Malgrado le risoluzioni dell’Unione Europea abbiano incoraggiato dal 1992 a definire una soglia di reddito minimo garantito, l’Italia (insieme alla Grecia) non ha una legge che garantisca una protezione economica per chi è disoccupato, precario o in povertà. La campagna «reddito per la dignità» sollecita uno dei Welfare più arretrati d’Europa a recuperare 23 anni di ritardo e promuove una misura ispirata ad un principio consolidato: il reddito minimo è stabilito almeno al 60% del reddito mediano dello Stato membro.

«Reddito minimo o di cittadinanza»

In parlamento esistono due proposte di legge presentate da Sinistra Ecologia e Libertà sul «reddito minimo» (nata da una proposta di legge popolare) e dal Movimento 5 Stelle sul «reddito di cittadinanza», oggi incardinate nella commissione Lavoro del Senato dove sono in corso le audizioni. La campagna «Reddito per la dignità» propone mediazione migliorativa tra proposte non proprio coincidenti: «Reddito minimo o di cittadinanza». In tutta evidenza, si tratta di misure diverse: il reddito minimo è condizionato alla scelta di un lavoro congruo, quello di cittadinanza è rivolto a tutti i residenti. Da precisare che la proposta dei Cinque Stelle non corrisponde ad un «reddito di cittadinanza», ma è in realtà un reddito minimo soggetto a limitazioni ispettive e lavoriste. Alla base di questo equivoco c’è una confusione terminologica in cui tutto il sistema mediatico si è fatto trasportare in modo acritico.

La proposta
La proposta di Libera, Bin e Cilap invoca un accordo sulla base di quattro principi: il reddito dev’essere individuale, sufficiente, congruo rispetto alle competenze al reddito e al lavoro precedente e riservato a tutti i residenti. La campagna propone inoltre un doppio passo in avanti. Il reddito minimo non va considerato come una misura alternativa al sussidio di disoccupazione (la «Naspi» o il «Dis-Coll» previsti dal Jobs Act) e, tanto meno, un sussidio contro la povertà assoluta. Dev’essere invece considerato anche uno strumento opposto a chi pensa che un reddito deve essere accettato in cambio di un lavoro «purché sia». Sono elementi utili per prefigurare una riforma del Welfare in senso universalistico, ben diversa da quella contenuta nel Jobs Act per il solo lavoro dipendente.

I costi
Il costo del reddito minimo sostenuto dalla campagna «Reddito per la dignità» varia tra i 15 ai 26 miliardi di euro. L’incertezza deriva anche dal fatto che nel nostro paese esistono misure frammentate e incoerenti che andrebbero semplificate e gradualmente accorpate. Una buona parte di questi fondi potrebbero essere ricavati da una riduzione strutturale delle spese militari, da una imposta sui grandi patrimoni e da una maggiore tassazione dei giochi d’azzardo.

Ipotesi ormai di senso comune, nella società e in una larga porzione dell’opposizione parlamentare, che non ha ancora trovato una sponda nel governo che ha preferito l’erogazione a pioggia del bonus Irpef da 80 euro per il lavoro dipendente con un costo di 10 miliardi all’anno. Soldi che avrebbero potuto essere usati in maniera più efficace e universale, senza cedere a tentazioni populistiche ed elettoralistiche come invece ha fatto Renzi.

Le sorti delle proposte di legge sul reddito restano comunque incerte. Non rappresentano, al momento, una priorità per il governo impegnato in un “cronoprogramma” che intreccia le esigenze imposte dalla famosa lettera della Bce con le idiosincrasie di Renzi. Le audizioni in commissione – oggi è prevista quella del Basic Income Network – sono interessanti perché mostrano le differenze tra i soggetti della “società civile” impegnati nell’ardua battaglia per imporre in Italia alcuni standard minimali di civiltà.

Che cos’è il “Reddito di inclusione sociale” (Reis)
La campagna “reddito di dignità” per il reddito “minimo o di cittadinanza” si differenzia da quella sul “Reddito di inclusione sociale” (Reis) sostenuto dall’Allenza contro la povertà promossa sin dal 2013 dalle Acli e dalla Caritas. A questa campagna aderiscono, tra gli altri, la Comunità di Sant’Egidio e i sindacati confederali Cgil Cisl e Uil. Le ipotesi sostenute sono molto diverse, come anche gli obiettivi. Solo in parte coincidenti. La divergenza non è solo tra “cattolici” e “laici” o “sinistra”, ma spacca a metà le sinistre e il mondo sindacale. Il Movimento 5 stelle cerca di restare nel mezzo, confondendo i termini dei problemi e, come sempre, annacquando la radicalità delle soluzioni, oppure peggiorando quelle avanzate dopo anni di lavoro.

Colpisce la differenza di posizionamento tra la Fiom e la Cgil, in particolare. Per Landini, infatti, avere scelto la campagna “reddito di dignità” significa avere abbracciato questa idea: per combattere disoccupazione, precarietà e povertà bisogna attivare l’individuo e promuovere la sua autonomia. Camusso, e gli altri sindacati, pensano invece di raggiungere gli stessi obiettivi privilegiando misure a sostegno delle famiglie poverissime. Da un lato, c’è l’aspirazione a costruire un Welfare universalistico, sia pure con misure imperfette. Dall’altro lato, si rischia di imporre un workfare paternalistico e caritatevole. Una volta ricevuto questo Reis, infatti, tutti i membri della famiglia tra 18 e 65 anni ritenuti abili al lavoro devono attivarsi alla ricerca di un impiego; dare disponibilità a iniziare un’occupazione offerta dai Centri per l’impiego e a frequentare attività di formazione o riqualificazione professionale.

Questa misura è intestata ai capofamiglia, e non ai singoli. Se realizzata, verrà rafforzata l’immagine di un welfare maschile, fondato sul familismo, in contesti di povertà e deprivazione. E lo Stato rischia di diventare un censore, o un prefetto che controlla la vita delle persone che devono rispettare l’impegno a dimostrarsi disponibili a qualsiasi offerta di lavoro.

In più il Reis rischia seriamente di sposarsi con l’idea del ministro del lavoro Poletti secondo il quale bisogna mettere la gente al lavoro anche nel volontariato, o nei lavori socialmente utili, in cambio di un sussidio di povertà. Poletti le chiama “attività a beneficio delle comunità locali”, un’idea che fa il paio con quella di tagliare le vacanze estive e mandare gli studenti minorenni a “scaricare cassette ai mercati generali”. Un “modo per rendersi utili” agli occhi della “comunità” tipico di una visione dove la differenza tra la carità e l’autoritarismo è sottile.

Non è detto che il governo Renzi non scelga questa strada. Sempre che voglia fare qualcosa contro la disoccupazione e la povertà.

La distanza tra Landini e Camusso

In questo scenario di battaglia culturale, e politica, sul reddito emerge la distanza tra Landini e Camusso sul reddito. Sia pure in maniera ancora parziale, e scarsamente argomentata, Landini si è più volte soffermato sulla valenza di un reddito minimo in un contesto di disoccupazione strutturale e di lavoro povero. Sembra avere superato le reticenze, e le censure, del lavorismo della sua cultura di provenienza per la quale chi non lavora non può avere un reddito. Nel caso di Camusso, questo imperativo resta inscalfibile. Ad esso si aggiunge un altro, decisivo per il futuro di un sindacato che protegge i fondamenti di una società fordista, ricavata sullo standard del lavoro salariato e dipendente. Camusso crede, infatti, che oggi questa funzione vada restaurata e il sindacato deve mantenersi autonomo dalla politica. Quando, invece, Landini parla di “coalizione sociale” riconosce che il sindacato non è più autosufficiente e deve mettersi al centro di una rete sociale e politica molto più ampia se vuole iniziare una nuova stagione di “negoziazione sociale” che includa il quinto stato.

«Quando il sindacato è presente – ha detto Camusso commentando uno studio del Fondo Monetario Internazionale –  i risultati di protezione economica sono molto maggiori di qualsiasi altro strumento, sia esso il reddito di cittadinanza o il salario minimo deciso dalla politica».

Una pietra tombale sul tentativo (anche di una parte della sinistra e dei movimenti sociali, oltre che dei Cinque Stelle) di istituire un reddito minimo in Italia.
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Leggi il dossier sul reddito minimo “o di cittadinanza”

Reddito: il minimo che manca in agenda

Perchè la politica italiana non capisce il reddito minimo garantito? (Giuseppe Allegri, da La furia dei cervelli)

Reddito minimo: giustizia sociale per uscire dalla crisi (e dal coma) (Giuseppe Allegri, Roberto Ciccarelli, da La furia dei cervelli)