Mancano sei mesi alle presidenziali americane e non è ancora del tutto certo se sarà davvero Clinton il candidato democratico, se le convention verranno contestate o meno, mentre è già tempo di sondaggi verso la volata fnale. Da qualche giorno alcuni di questi danno vincente Trump, spargendo molto panico in quella porzione di Stati uniti (e non) che associa Trump a un incubo.

Quello che dall’estate scorsa si temeva sembra si stia avverando: per la prima volta un sondaggio, quello di Abc/Wp, vede Donald Trump in testa davanti a Hillary Clinton, con una percentuale di 46 a 44. La maggior parte degli altri sondaggi, li vedono testa a testa. All’inizio Trump era stato considerato alla stregua di una barzelletta e nessuno pensava davvero che sarebbe arrivato a essere il candidato: ora il «testa a testa» suona quasi come una presidenza già in tasca. Il fatto è non che la sua vittoria si possa escludere del tutto, ma solo che un sondaggio a sei mesi dalle elezioni è più speculazione che scienza. Bisogna tener presente che in America il candidato vincente non è quello che prende più voti, perché il sistema americano è complesso.

Ogni stato assegna un certo numero di «grandi elettori» vale a dire persone che eleggeranno il presidente dopo le elezioni, riunite in un’istituzione detta «collegio elettorale». Il numero dei «grandi elettori» assegnati da ogni stato dipende dalla sua popolazione, e quindi può variare tra un’elezione e l’altra. I «grandi elettori» in tutto sono 538: per diventare presidente bisogna vincerne uno in più della metà, cioè arrivare a 270. Alcuni stati sono «certi» in quanto tradizionalmente democratici (come New York) o repubblicani (come l’Alaska), altri sono da sempre in bilico come Ohio o la Florida. Conta poco, quindi, vedere quanti singoli elettori votano per un candidato, ma quanti stati vanno a chi. Inoltre in sei mesi potrebbe accadere di tutto.

Un esempio sono le elezioni del 2012: Obama avrebbe probabilmente vinto, ma la vittoria contro Romney per 332 grandi elettori, è stata dovuta alla impeccabile e umana gestione dell’uragano Sandy avvenuto solo pochi giorni prima. L’evento gli ha attirato l’endorsement del governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, ora fervente sostenitore di Trump. Il vero problema e il vero dato che i sondaggi, a sei mesi dalle elezioni, stanno evidenziando è che dei due candidati, il certo Trump e l’abbastanza certa Clinton, sono tollerati ma non amati dalla maggior parte della loro base. Le ragioni di questo sentimento sono opposte.

Hillary rappresenta l’establishement del partito più di chiunque altro, e per questo è invisa; per i sostenitori dell’altro candidato, Sanders, è proprio fumo negli occhi. Trump, invece, è la negazione di gran parte dei «valori» repubblicani: rappresenta qualcosa in cui un conservatore potrebbe non riconoscersi mai. Clinton non riesce a catturare la fiducia degli indipendenti, Trump ha solo la fiducia degli indipendenti. E su questo i sondaggi sono chiari: sei elettori su dieci hanno un giudizio negativo dei candidati, vale a dire il 57%, più della metà.
Come gestire questa situazione è un problema più per Trump che per Hillary, perché il miliardario non ha altro bacino di voti a cui attingere. Clinton sta cercando in tutti i modi di non bruciare i ponti con gli elettori di Sanders e ovviamente con Sanders stesso, invocando unità. Ha il partito alle spalle per questo (anzi, lei stessa è proprio il partito). Trump è solo. Il fatto che sia il candidato è di per sé il fattore che potrebbe fare di lui il prossimo presidente del Stai uniti d’America, ma un sondaggio fatto oggi non significa che tra sei mesi le cose vadano esattamente come oggi.

Certo è che il sistema bipartitico americano è ormai agli sgoccioli se non proprio al capolinea, e che avere due candidati vissuti più come «male necessario» che come espressione del proprio delegato a governare, mette in evidenza tutti i difetti di questo processo rappresentativo che viene usato, forse, per l’ultima volta.