Ken Loach, prima di presentarlo allo scorso Festival di Cannes, dove era in concorso, aveva annunciato che sarebbe stato il suo ultimo film, intenzione che il regista inglese ha poi accantonato, almeno per ora. Non sarà dunque il titolo finale della sua filmografia questo Jimmy’s Hall, scritto come sempre da Paul Laverty (insieme a Donal O’Kelly), e ispirato alla figura storica poco conosciuta di James Gralton (sullo schermo Barry Ward). Irlandese, militante repubblicano, in prima linea nella guerra di indipendenza contro gli inglesi, e poi nella guerra civile, Gralton era stato costretto a lasciare il Paese quando l’Ira nazionalista aveva accettato la divisione dell’isola rinunciando alla repubblica. Lo manderanno a New York, dove tornerà ancora una volta, e di nuovo esiliato senza processo né colpe, negli anni della Grande Depressione, diventando un leader sindacale tra i combattivi wobblies.

Il film inizia col ritorno di Gralton in Irlanda nel 1932. La madre è ormai anziana, ed è rimasta sola a badare alla fattoria, lui vuole prendersene cura e dal resto, cioè dalla lotta politica, ha promesso a sé stesso di tenersi lontano. Non ci credono però i politici della contea, e tantomeno il prete, molto allarmati da questo ritorno, e nel profondo non ci crede neppure lui. Che infatti nonostante gli sforzi ricomincerà a essere un riferimento per chi vuole che qualcosa cambi, a cominciare dalle giovani generazioni soffocate da bigottismo, oppressione sociale della chiesa cattolica, privilegi feudali dei proprietari terrieri. E cosa di più potente, e destabilizzante di un music hall dove insegnare Marx, la lotta di classe, il disegno, a ritmo di ballo – e sono quelle anche le scene madri del film.

La storia è bellissima, e la figura di Gralton appare perfettamente sintonizzata con l’universo del regista di Terra e libertà: comunista, dalla parte dei deboli, lucido nelle sue scelte e con la bellezza dell’utopia nel cuore. Eppure anche se si parla di libertà e di ribellione il film appare invece piuttosto convenzionale, privo della sgangheratezza di una proletaria di verità. Tutto procede come la scrittura – prevede: scontri, entusiasmi, tradimenti, «citazioni» fordiane e un eccesso di sentimentalismo tra vite mancate come gli amori, e occasioni perdute si intrecciano senza nessuno spazio vuoto, nessun margine possibile di ruvida conflittualità.

Loach ha già raccontato la storia politica dell’Irlanda e la sua guerra contro l’Impero britannico in Il vento che accarezza l’erba (con cui ha vinto la Palma d’oro), dove però la dissacrazione dell’inglese, lui stesso, tirava fuori la rabbia e l’ambiguità della Storia. Jimmy’s Hall si svolge invece in una sorta di «schema» del film impegnato in cui tutti i personaggi – e gli attori sono molto bravi, peccato che il pubblico italiano li vedrà per lo più doppiati perdendo così, come sempre nel nostro mercato, una buona metà del film – sono rigidamente inquadrati nel loro ruolo, e persino lui, il rivoluzionario Gralton, bello e irruento, non sembra avere dalla regia le armi per sfuggire, almeno un poco, a sé stesso.

Il film,applauditissimo sulla Croisette, si fa trascinare dalla musica gaelica, si immerge nei paesaggi verde smeraldo, inanella lane grosse e caschetti anni Trenta, ammicca alla narrazione emotiva e però non sembra trovare un contrappunto, un conrocampo, qualcosa in cui lo spettatore non venga sempre assecondato e soddisfatto nella sua indignazione (anche se persino la chiesa farà un po’ ammenda del suo operato). Non restano dubbi, si sa subito da che parte stare e sarebbe impossibile il contrario. Detto questo la figura di Gralton meritava comunque di essere raccontata, Loach ne fa l’eroe di una ballata malinconica, un po’ amara ma con tenerezza.